Golrokh Ebrahimi Iraee è una donna libera che ha denunciato attraverso un racconto la lapidazione, tipologia di pena che ha sporcato le strade iraniane di sangue e vergogna.

La denuncia silenziosa di Ebrahimi Iraee è stata la sua colpa e sei anni di reclusione sono la sua condanna. Le accuse mosse alla donna sono di «offesa ai sacri valori dell’Islam» e «diffusione di propaganda contro il sistema».
Il racconto in causa non è mai stato pubblicato: si tratta difatti di un inedito requisito nell’abitazione dell’autrice il 6 settembre 2014, giorno in cui le Guardie Rivoluzionarie ispezionarono la casa condivisa con Arash Sadeghi, a sua volta attivista per i diritti umani e marito di Ebrahimi Iraee.

La storia narrata in quelle pagine ha come protagonista una donna che brucia una copia del Corano come segno di ribellione e rabbia, colpita dalla visione del film La lapidazione di Soraya M. La legge dell’Iran ha giudicato la trama così sovversiva da doverne non solo impedire la pubblicazione, ma anche punire l’autrice.
«Le accuse mosse contro Golrokh Ebrahimi Iraee sono assurde» ha dichiarato Philip Luther, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International, che ha proseguito invitando l’Iran a concentrarsi sull’abolizione della lapidazione piuttosto che perseguitare chi insorge contro tale pratica.

La lapidazione, difatti, non ha mai smesso di essere una costante nella vita dei cittadini iraniani – una minaccia di morte che pende soprattutto sulle donne e contro cui i difensori dei diritti umani hanno a lungo combattuto invano.
Una di queste lotte risale al periodo a cavallo tra il 2012 e il 2013, lasso di tempo in cui vi fu un importante dibattito sulla discussa pena: a fronte di una revisione del codice penale che andava ad abolire la lapidazione, vi fu l’agire del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione che la reintrodusse per i reati di adulterio e di rapporti sessuali extraconiugali. Iran Human Rights Italia pubblicò un contributo in cui denunciava l’accaduto, avvalendosi di note e rapporti di Human Rights Watch. Sarah Leah Whitson, direttore di HRW per il Medio Oriente e il Nord Africa, dichiarò:

«La lapidazione a morte è una pena ripugnante che non ha posto nel codice penale di alcun paese. […] Insistendo nel mantenere la lapidazione nel codice penale, le autorità iraniane stanno offrendo la conferma che presiedono ad un sistema di giustizia penale basato sulla paura, sulla tortura e sull’ingiustizia».

Le parole della Whitson, oltre a essere attuali, divengono ancora più significative in ragione del fatto che la prima bozza del nuovo codice penale iraniano, malgrado abolisse la lapidazione come pena per il reato di adulterio, non mancava di contemplare la possibilità per i giudici di ricorrere a fonti religiose per applicare ugualmente questo tipo di pena – la probabilità che l’Iran continuasse a scagliare pietre, dunque, sarebbe stata alta in ogni caso.

La vicenda di Ebrahimi Iraee sembra personificare l’analisi-accusa sopracitata: «un sistema di giustizia penale basato sulla paura, sulla tortura e sull’ingiustizia» – l’ingiustizia nel condannare chi osa denunciare ciò che ritiene incivile, la tortura insita in interrogatori e reclusioni scevri di diritti, la paura nella consapevolezza di dover pagare un dazio elevato in nome della libertà di pensiero ed espressione.

Le vicissitudini giudiziarie della giovane attivista si intrecciano inoltre con quelle di suo marito: Arash Sadeghi ha già iniziato a scontare i suoi anni di reclusione nella prigione di Evin, in Teheran.

I reati a lui imputati sono stati la «diffusione di propaganda contro il sistema», la «collusione contro la sicurezza nazionale» e la «offesa al fondatore della Repubblica islamica».
Per Amnesty International, che ha denunciato la sorte dei coniugi e invitato la giustizia iraniana a rivedere le sentenze, l’unica colpa imputabile all’uomo è quella di aver investito tempo ed energie nella difesa dei diritti umani. Chiede Philip Luther a coloro che hanno giudicato:

«Li esortiamo ad annullare la sentenza di Golrokh Ebrahimi Iraee e quella di suo marito Arash Sadeghi, che si trova in prigione da giugno per aver esercitato senza violenza i suoi diritti alla libertà di espressione e di associazione. Il governo iraniano, usando metodi spietati e repressivi, è a un passo dallo schiacciare un’intera generazione di giovani attivisti».

Ma la denuncia di Amnesty International si sofferma anche sulle modalità del processo e dell’arresto, il primo definito «grottesco» poiché all’autrice sarebbe stato negato il diritto alla difesa – «la sua era una sentenza scontata» –, il secondo avvenuto in assenza di tutela dei diritti civili.
Arash Sadeghi sarebbe stato sottoposto a torture, mentre Ebrahimi Iraee, trattenuta nel carcere di Evin a seguito del rinvenimento del racconto, avrebbe subito venti giorni di interrogatorio, bendata e con il viso rivolto al muro, senza la possibilità di ricorrere ad avvocati e familiari.

La situazione di crisi vissuta dalla tutela dei diritti umani in Iran, così in evidenza nelle pagine di vita dei due sposi, è stata analizzata anche dall’ONU. Ban Ki-moon si è professato «profondamente turbato» da esecuzioni, processi iniqui, arresti e detenzioni arbitrarie, soppressione della libertà, torture e maltrattamenti, sino ad arrivare alla condizione in cui versano le donne e, in generale, le minoranze.
È il già citato contributo di Amnesty a riportare il commento delle autorità iraniane sull’ultimo rapporto del Segretario generale dell’ONU sulla situazione dei diritti dell’uomo nella Repubblica Islamica dell’Iran:

«Le autorità iraniane hanno confermato che la lapidazione è la punizione prevista dalla sharia (legge islamica) per l’adulterio e affermano che questa punizione “è efficace per prevenire i crimini e proteggere la morale”».

L’International Campaign for Human Rights in Iran ha pubblicato un’intervista rilasciata da Ebrahimi Iraee il 6 ottobre, due giorni dopo essere stata convocata presso il carcere di Evin per iniziare a scontare la pena, nella quale la donna ha dichiarato che la convocazione è avvenuta tramite una telefonata, senza alcun documento scritto, ragione per cui lei ha ritenuto di poter rifiutare di sottostare a questo monito verbale.
Nel corso della medesima intervista ha difeso la propria innocenza, la propria fantasia, il proprio diritto a scrivere e immaginare senza che alcuno si senta leso e offeso, curandosi di denunciare sia la pressione psicologica esercitata su lei e il marito durante gli interrogatori, sia l’essere stata giudicata in contumacia – in occasione della seconda e definitiva udienza, Iraee si trovava in ospedale.

Philip Luther, tra le altre parole spese per la vicenda, ha affermato che «lei è stata punita per aver fatto appello alla sua immaginazione».

Ma l’Iran ha punito un’idea, più che una fantasia, ha punito l’atto di aver scritto un racconto-denuncia, il possibile proposito di pubblicarlo e diffonderlo, instillando nella società il ragionevole dubbio che la lapidazione, al pari di qualsiasi altra di pena di morte, sia una pratica contro cui ribellarsi con coraggio e anche con rabbia, affrancandosi dal timore esercitato dallo Stato e dalla religione.

Rosa Ciglio

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