La sconfitta di Hillary Clinton è stata anche la sconfitta dei sondaggisti di tutti gli States, e forse più propriamente di un metodo scientifico che non sembra considerare le nuove frontiere della comunicazione.
Trump ha trionfato perché ha saputo comunicare e farsi capire, soprattutto sui social media.

Se non fosse deceduta ormai da più di sei anni probabilmente Elisabeth Noelle-Neumann avrebbe contestato i sondaggi che in tutto il mondo prefiguravano (e a volte pregustavano) la sconfitta di Trump.
La sondaggista e sociologa tedesca avrebbe forse spiegato meglio di chiunque altro la sorprendente Brexit, e, qualora si fosse interessata agli avvenimenti di Roma, anche la vittoria schiacciante di Virginia Raggi sarebbe stata materiale d’analisi per i suoi studi, perché spesso vincono gli sfavoriti, e la Noelle-Neumann, nel 1965 direttrice di un istituto di ricerca smentito dalle elezioni parlamentari, studiò il fenomeno che subì sulla propria pelle.

L’ipotesi di fondo della teoria che diverrà famosa come “la spirale del silenzio” è semplice: ognuno di noi teme costantemente l’isolamento, e la società minaccia i comportamenti anti-conformisti con l’isolamento.
Dunque l’opinione dominante è l’unica che può essere dichiarata in pubblico senza avere paura di venire emarginati, e durante questa campagna elettorale ad avviso di gran parte dei mass media statunitensi dichiarare di votare Trump era sconveniente.
Verrebbe da interrogarsi su quanto fosse conveniente, nella sterminata provincia americana ancora in crisi, dichiararsi a favore di una candidata che soprattutto dopo i leaks che l’hanno riguardata è stata sempre più vista come un’estensione di Wall Street. Ma il punto è un altro.

La Noelle-Neumann teorizza la frequente presenza di una maggioranza rumorosa, consapevole di potersi esprimere in pubblico, e di una minoranza silenziosa, che pur non convinta dall’opinione dominante sceglie di non far sentire la propria voce temendo di venire isolata. Chi si comporta in questa maniera non percepisce alcun appoggio sociale, mentre qualora divenisse consapevole di avere un’opinione minoritaria ma comunque supportata da altri individui il silenzio potrebbe cessare.
Ma cosa succede quando è la maggioranza ad essere silenziosa perché si percepisce come minoranza, e la minoranza ad essere rumorosa perché si percepisce maggioranza? Solitamente, la maggioranza silenziosa finisce comunque col ridimensionarsi, e se non lo fa ci sono ottime probabilità che si verifichi una vittoria a sorpresa.

Eppure, nessuno si è sognato di definire la fazione pro-Trump “silenziosa”, anzi, gli “angry white men” venivano spesso ritratti come burberi mangiatori di hot dog, pronti a urlare a squarcia gola con un rivolo di ketchup giù per il mento. Una minoranza (che poi si è rivelata maggioranza), quindi, che non ha mai avuto paura di esprimersi. Un’enormità di individui che si è sentita appoggiata dalla nazione.

La Noelle-Neumann teorizzava che ci fosse la televisione al centro del consolidamento o mutamento dell’opinione pubblica. Il cittadino si sarebbe sentito rincuorato se in quello specchio della nazione la sua opinione minoritaria fosse stata considerata “accettabile”. Questo però non è il caso che stiamo analizzando, Trump è sempre stato ridicolizzato e/o demonizzato dai broadcast media.
Ma quindi in quale ambito i sostenitori di Trump, così come i convertiti dell’ultima ora, hanno potuto percepire un clima di opinione diverso, opposto a quello descritto dai media generalisti?

La studiosa parla di una possibilità di climi duali, da una parte quello che si riscontra nei rapporti interpersonali dell’individuo, e dall’altra quello mediatico. Ma dove poniamo oggi il flusso di informazioni generate/recepite online tramite social network? Rappresenta una comunicazione di massa ma è allo stesso tempo interpersonale, una “autocomunicazione di massa”, come l’ha definita il sociologo Castells. Il “consumer” si comporta anche da “producer”, divenendo un “prosumer”.

Proviamo a rispondere con un po’ di storia.

Il primo tweet di sempre fu realizzato il 21 marzo 2006 da Jack Dorsey, uno dei fondatori del fortunato social network. Il suo contenuto? «Just setting up my twttr», ovvero la risposta ad un implicito “che fai?”.

Già dalla sua prima apparizione sul web il social del cinguettio si proponeva come una chiacchierata tra vicini di casa, ma potenzialmente visibile a milioni di persone. Perché chiunque sui social network è libero di investigare, scovare, percepire cosa pensano gli utenti di tutto il mondo. In questo caso le loro considerazioni su Trump.

Ci troviamo di fronte al paradosso dell’informazione nell’era dell’ultimo stadio di internet: ogni utente può organizzarsi la nicchia di contenuti che preferisce. Mettendo “mi piace” ad un determinato tipo di pagina Facebook riceveremo solo un certo tipo di informazione, e lo stesso accade con Twitter e più in generale con i contenuti online, sempre più personalizzati (si pensi a quanti si informano con aggregatori di notizie come Flipboard).

Chi pensava che internet avrebbe condotto i cittadini ad aprirsi al punto di vista altrui è stato quindi smentito dai fatti.

Ma allora, stai a vedere che sono i social che hanno permesso alla presunta minoranza trumpiana di rumoreggiare fino ad accogliere tra le proprie fila indecisi, “perversi” socialisti e “perversi” immigrati?
Pensiamo ad un convinto sostenitore di Sanders, deluso dal partito Democratico a causa del mailgate che ha rivelato come fra i leader democratici praticamente tutti spingessero per far fuori il proprio beniamino. «MAI CON HILLARY!», gli viene da pensare, «piuttosto VOTO TRUMP!».
Tra un retroscena e l’altro entra inferocito sul suo account Twitter e legge che fra gli elettori socialisti di tutti gli States monta la protesta, e che qualcuno non solo ha pensato quel «piuttosto voto Trump», ma ha avuto anche il coraggio di scriverlo o dirlo pubblicamente! Ciò non sarebbe stato possibile nella sede reale del partito.
Il tabù non appare più tale, e nel segreto dell’urna… Chissà.

Sottovalutare la comunicazione online è stato forse il più grande errore della campagna di Hillary Clinton, e il giorno dopo il “clamoroso ribaltone” praticamente tutta la stampa mondiale è stata pronta a riconoscerlo: il disinibito e virale Trump ha vinto di gran lunga sull’impacciata e troppo formale democratica (notare a tal proposito le biografie Twitter dei candidati messe in evidenza sopra questo articolo).

Chi fosse ancora dubbioso riguardo a quanto possa fare opinione l’attività sui social farebbe bene a considerare la recente ed irreversibile svolta 2.0 nel campo della moda, con le fashion bloggers che munite di solo smartphone stanno mettendo a dura prova gerarchie culturali (ed economiche) consolidate.

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Qui sopra la pubblicazione Instagram di una di queste nuove opinion leader, assediata dai paparazzi durante la settimana della moda di Milano.
Anche loro sono state inizialmente sottovalutate, proprio come Trump, ma ora che firmano contratti di svariate migliaia di euro/dollari con marchi che non vedono l’ora di utilizzarle per pubblicizzare i propri capi, fanno molto meno ridere perfino tra le fila di Vogue, il timone modaiolo per eccellenza.

«Non è triste solo per queste ragazze che si pavoneggiano per i fotografi. È stressante, in egual misura, vedere quanti marchi partecipino al fenomeno accrescendolo».
Nicole Phelps, Direttrice di Vogue Runway

Ma veniamo a noi. Poniamo che il cittadino americano abbia percepito due opposti climi d’opinione, uno mainstream che dava la Clinton favorita ed uno “social” che invece brulicava di citazioni e retweet del tycoon. Cosa lo ha spinto a ritenere più “statisticamente” credibile il secondo? Badate bene che non utilizziamo questa parola a caso, il cittadino secondo la Noelle-Neumann effettua una valutazione accurata del clima d’opinione, con “competenza quasi statistica”. Ricordiamo che in ballo c’è l’isolamento o l’integrazione.

Probabilmente sono almeno due i fattori che hanno indirizzato i cittadini verso la seconda narrazione:

1) Sui social scrivono e fanno opinione anche individui che si conoscono personalmente;
2) I media mainstream sono ritenuti sempre meno credibili in America.

Mentre sul primo fattore ci sono pochi dubbi, poiché è un’evidenza, per accettare come buono il secondo basterà citare un’indagine resa nota a settembre da parte dell’istituto demoscopico Gallup, che ormai da più di 10 anni effettua rilevazioni riguardo il giudizio americano sui mass media. Quest’anno il livello di fiducia che i cittadini USA ripongono nei media mainstream è il più basso di sempre: solo il 32% degli intervistati ha espresso un giudizio positivo riguardo la loro credibilità.

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La fiducia degli americani nei mass media

In particolare solo il 51% dei democratici e il 14% dei repubblicani (l’anno scorso era il 32%)

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e il 26% dei cittadini tra i 18 e i 49 anni contro il 38% degli ultracinquantenni.

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Continuare a sbagliare sondaggi non invertirà il trend.

Valerio Santori
(Twitter: @santo_santori)

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