Stava tornando a casa Arturo, quando è stato colpito con venti coltellate da una baby gang a via Foria. Un ragazzo di diciassette anni ridotto in fin di vita e una madre coraggiosa che da televisioni e giornali chiede giustizia e vuole che la storia non resti relegata ad un episodio di cronaca di cui, passato il clamore, tutti si saranno dimenticati, come purtroppo spesso accade.

Dopo Arturo è stata la volta di un ragazzo di quindici anni, aggredito con calci e pugni alla stazione metro di Chiaiano da un branco di ragazzini che gli ha spappolato la milza. E poi ancora, due ragazzini presi a colpi di catene nella villa di Pomigliano D’Arco. Sono sette gli episodi registrati nell’arco di due mesi. A via Foria, Chiaiano e Pomigliano. Ma anche nella villa comunale, al Vomero e a Chiaia.

Ragazzini, minorenni, che riducono in fin di vita loro coetanei. Una violenza da Arancia meccanica. Episodi che si inseguono nell’arco di poche settimane, uno dopo l’altro rimbalzano sui telegiornali e fanno parlare di ‘allarme baby gang’ a Napoli. E dopo settimane, arriva la tanto attesa risposta istituzionale con un vertice in Prefettura presieduto dal ministro dell’Interno Minniti che ha convocato vertici nazionali e locali delle forze dell’ordine per un comitato sull’ordine pubblico e la sicurezza, predisponendo l’invio di unità da reparti speciali.

Ma davvero quando parliamo di baby gang, parliamo di una questione di ordine pubblico e sicurezza? È abitudine comune ormai, da parte delle istituzioni, rendere emergenza ciò che emergenza non è. Accade così che ‘l’immigrazione’ diventi ‘l’emergenza immigrazione’ e che quelli che sono problemi sociali, fratture all’interno del tessuto sociale, diventino questioni di ordine pubblico.

Il rischio che si corre è grande, perchè un’emergenza richiede soluzioni prese nel minor tempo possibile, soluzioni la cui validità, efficacia o correttezza è giustificata proprio dal fatto che si tratti di un’emergenza che riguarda la sicurezza dei cittadini e che quindi vanno prese subito, senza pensarci troppo. In questo caso, se parliamo di baby gang, il rischio è doppio ed è quello di far diventare un’emergenza di ordine pubblico ciò che invece è innanzitutto un problema educativo, che come tale richiede riflessioni più ampie che non possono esaurirsi nell’immediato, nei tempi brevi di un’emergenza.

Non solo, un problema educativo è un problema che riguarda noi tutti, la comunità intera, una comunità che educa alla violenza. Relegare questo alle forze dell’ordine significa compiere lo stesso movimento che abbiamo fatto per anni, confinando il fenomeno della violenza, del disagio minorile, alle periferie, arrivando quindi a stupirci e a viverlo come un problema solo quando gli episodi violenti accadono a Chiaia o a via Foria, nel cuore della città.

E ancora, releghiamo la violenza ad un caso isolato, bollando i ragazzi che la compiono come quattro delinquenti, figli di pregiudicati, quindi, in un certo senso, con il destino già segnato, un po’ come se il delinquere si trasmettesse per via ereditaria sotto forma di una specie di gene della delinquenza. Tutto pur di non ammettere che è anche colpa nostra.

Se nel cuore della nostra città ci sono ragazzini che riducono in fin di vita altri ragazzini la colpa è collettiva. La colpa è di una comunità che alla violenza risponde con la repressione e non è in grado di proporre alternative. Si sarebbe potuto ascoltare educatori, insegnanti e chi quotidianamente lavora con e per quei ragazzi che diventano un problema di cui parlare quando finiscono in prima pagina. Non è stato fatto. “Un bambino, un insegnante, un libro, una penna possono cambiare il mondo” diceva qualcuno, ma questo mondo sembra non voler cambiare.

Nessuno, ad esempio, sembra parlare di dispersione scolastica. Eppure i dati relativi all’anno scolastico 2014-2015 parlano, per le scuole medie, parlano di 408 ragazzi che hanno abbandonato la scuola su un totale di 31mila. E ci stiamo riferendo solo ai casi segnalati ai servizi sociali. Si sarebbe potuto parlare di spazi. Spazi di aggregazione, spazi dove dare ai ragazzini la possibilità di praticare sport, invece di abbandonarli tra le strade di una periferia ora diventata centro.

La colpa è di una comunità che ignora i propri figli. Parliamo di ragazzi in cerca di lavoro, ma di bambini e adolescenti non parliamo mai. La fascia d’età che va dai dieci ai diciott’anni è un esercito di invisibili che diventa visibile quando si trasforma in notizia di cronaca. Colpa di una comunità che invece di prendere in mano la violenza, di guardarla, affrontarla e trasformarla, l’ha scissa in maniera paranoica.

C’è una poesia di un grande attivista della non violenza siciliano, Danilo Dolci, che così recita:

“C’è pure chi educa, senza nascondere

l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni

sviluppo, ma cercando

d’essere franco all’altro come a sè,

sognando gli altri come ora non sono:

ciascuno cresce solo se sognato.”

 Le nostre comunità sono ancora in grado di sognare? Siamo in grado di dare risposte diverse dalla repressione, di dare innanzitutto spazi dove poter sognare?

Giulia Tesauro

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