Cari lettori, è giunto il momento di indossare il lutto per noi stessi, per i vivi.
Preparate dunque le vostre migliori frasi di circostanza e indossate il filtro delle grandi occasioni sull’immagine profilo di facebook, perché quanto sto per confessarvi richiederà tutto il peggio che gli stereotipi sociali sono in grado di produrre.
Da Nizza ad Ankara, passando magari per Bruxelles, Dacca, Parigi ed Istanbul.
Ma tralasciando invece Hillah, Sadr City, Baidoa e Maiduguri.
Sono solo alcuni fra ultimi episodi che hanno funestato i nostri tempi di fervore e sangue, ceneri ardenti sotto le braci macere della devastazione e lacrime interrotte dalla polvere.
Il mio pensiero è questo: che quando si inizia a pesare le vite in termini di valore, in quel momento perde ogni valore il concetto stesso di vita.
Sembra esattamente quanto sta accadendo, come in un copione che segue sottilmente il suo canovaccio e conduce gli spettatori in maniera subdola ad un colpo di scena finale, in cui si annullano tutte le considerazioni precedenti e si giunge ad una sola, mortificante, agghiacciante morale.
Le tragedie ci passano accanto, a volte ci sfiorano ed altre ci riecheggiano come zefiri lontani fra il capo e l’orecchio, per svanire un istante dopo e perdersi nel vento. E sono allo stesso modo tragedie, si badi bene, gli attentati di matrice terroristica come gli annegamenti dei profughi nei canali marini, gli stillicidi che si consumano nei territori di guerra come gli incidenti sul lavoro causati da condizioni disumane.
Per quanto possa sembrare querulo dirlo, l’unica persona in grado di sintetizzare con una certa ragionevolezza lo stato di cose attuali è forse Papa Francesco, quando parla di terza guerra mondiale già in corso ai quattro angoli del globo.
Ma non è dei morti che stiamo parlando, giusto? Perché a noi, adesso, interessano i vivi.
I “vivi” sono quelli che a seguito di ogni evento nefasto corrono a disseminare il web di analisi geopolitiche improvvisate, nel migliore dei casi, e di commenti razzisti o fascisti, nel peggiore, per dimostrare quanto sia rilevante la loro opinione nell’assunzione di responsabilità e decisioni governative future.
I “vivi” sono quelli che hanno ancora la bandiera della Francia nell’immagine profilo su facebook, perché evidentemente gli attentati si compiono tutti lì per un volere ben preciso della lobby delle immagini del profilo, e allora il filtro con la bandiera della Turchia magari lo mettiamo un po’ più in là.
I “vivi”, soprattutto, sono quelli che si prodigano nella definizione di improbabili hashtag a sostegno o supporto di una giusta causa, nella sincera convinzione che da questo dipenda la redenzione dell’umanità. Hey, Dio, siamo arrivati a diecimila #prayfornice, che fai, non lo salvi un bambino? E vogliamo parlare di tutti gli #orabasta? Dov’è la pace nel mondo che ci era stata promessa al millesimo commento?
Ebbene, non so dove siano la pace e la solidarietà. Neppure so dove sia finito quel concetto di umanità che ci gloriamo di rappresentare con tanta assoluta, categorica perfezione.
So soltanto che in quegli hashtag, che rimandano a un buonismo dietro cui si cela la peggiore delle ipocrisie, siamo morti anche noi: nell’indifferenza di imprigionare il dramma dietro un cancelletto, come a chiuderlo in galera in un ergastolo della coscienza. Nell’ordire una pace che è in realtà un desiderio di vendetta edulcorato con un filtro di instagram; nella convinzione di essere tutto ciò che ci è rimasto e scoprire che di noi, invece, non è rimasto più niente.
Buona domenica.
Emanuele Tanzilli
@EmaTanzilli