Rodrigo Duterte, il Castigatore e Giustiziere e Presidente delle Filippine, contrasta la criminalità con le sue stesse armi: il modello Davao non conosce eccezioni né presunzione di innocenza, ma conosce la morte.
Le esecuzioni avvengono per le strade, tra un passante e l’altro, e sono identificate quali atti di ordinaria amministrazione al fine di contrastare il narcotraffico. Il modello Davao di Duterte ha sino ad oggi mietuto circa 7.000 vittime e niente nelle parole e nell’agire del Presidente lascia intendere che il conteggio sia prossimo ad arrestarsi.
Alla “guerra alla droga” va inoltre affiancata quella al terrorismo: la legge marziale, proclamata nel Mindanao al fine di liberare l’isola dal pericolo jihadista, è stata prorogata sino al 31 dicembre 2017 – «la nazione ha scelto di restare unita in difesa della Repubblica».
Con riguardo soprattutto al narcotraffico, malgrado la documentata violazione dei diritti umani e il malcontento manifestato da una fetta della popolazione, gran parte delle Filippine sembra restare fedele al risultato elettorale che ha scelto Duterte tra i vari candidati. L’atteggiamento autorevole del Presidente e le sue esternazioni dal sapore dissacrante se da un lato preoccupano e spaventano, dall’altro attraggono e rassicurano: sicurezza è difatti la parola chiave del modello Davao, il che nonostante possa apparire paradossale è forse l’elemento fondamentale della strategia comunicativa messa in atto dal politico filippino.
I diritti umani, nel contesto della lotta per la salvaguardia della sicurezza, sono declassati a ostacolo che impedisce alle forze dell’ordine di agire per il bene della comunità, la quale è descritta come brutalizzata dalla criminalità che vieta alla società di progredire economicamente e di essere un ambiente sicuro per l’incolumità fisica e psicologica di bambini e adulti. Una dinamica simile ha le sue radici nel sovvertimento dei valori, dove la politica della violenza muta da disvalore a valore e contemporaneamente il diritto a un equo processo assume la connotazione negativa di disvalore, poiché il tempo e le energie economiche e cognitive impiegati per ottemperare al principio secondo cui tutti hanno diritto a dimostrare la propria innocenza sono considerati sprecati – uno spreco ai danni dei cittadini onesti e a vantaggio di coloro che delinquono.
Tale sovvertimento dei valori messo in atto dal modello Davao è un problema che interessa ogni società civile, finanche quella italiana.
Reputare corretto, inevitabile, normale usare la violenza per tutelare la sicurezza è una forma di devoluzione della civiltà – la vita umana diviene disvalore, la condanna a morte diviene valore. Questo sistema produce una reazione a catena alimentata dalla convinzione secondo cui per un risultato che appaia desiderabile ogni mezzo è giustificato – nelle Filippine di Rodrigo Duterte il “nemico” oggi è la droga, ma se domani la droga smettesse di essere un problema, domani stesso si rintraccerebbe un’altra categoria da perseguitare e nel nome della quale continuare a calpestare i diritti umani e civili, sino a tramutarli in un ricordo così vago da poterne negare persino l’esistenza.
Il Time ha inserito Duterte nella classifica delle personalità più influenti del 2017, annoverandolo tra i Leader, dunque tra coloro che sono riusciti a distinguersi per carisma e risultati raggiunti. Tra le Icone ritroviamo invece Leila de Lima, politica filippina impegnata nella salvaguardia dei diritti umani e avversa al Presidente – la senatrice è stata arrestata con l’accusa di aver avuto legami con il narcotraffico, tale provvedimento è stato bollato da lei stessa quale reazione al proprio impegno politico, dato che l’accusa in questione non sarebbe altro che una falsità architettata per impedirle di proseguire la sua campagna anti-regime. Se la difesa della de Lima dovesse corrispondere a verità, il modello Davao avrebbe qui agito in maniera più raffinata: scansando l’azione violenta, avrebbe difatti usato gli strumenti della legalità per contrastare il parere contrario e le relative libertà di espressione e manifestazione del dissenso – in questi casi, i contorni tra ciò che è civile e ciò che non lo è rischiano di divenire sfocati.
Tuttavia, la propaganda tesa a svilire indirettamente i diritti umani e civili è ad oggi tra le protagoniste delle farse mediatiche messe in scena in tutto il mondo, non solo nelle Filippine. Duterte combatte la sua guerra contro la droga, qualcun altro identifica il nemico della sicurezza nell’immigrato, nelle minoranze, nei terroristi, negli oppositori politici. Non è necessario applicare materialmente il modello Davao perché si creino i presupposti per il sovvertimento dei valori, essi sono già presenti nella propaganda della superiorità di un gruppo a scapito di un altro, nella convinzione che uno Stato giusto possa punire con la pena di morte alcuni reati, nelle azioni tese a svilire la libertà di espressione – ivi compresa la difesa a oltranza di atti persecutori e forme di bullismo in nome della libertà a esprimere la propria opinione, come se tale libertà non implicasse il rispetto altrui e delle norme civili.
In delle società caratterizzate dalla presenza di questi presupposti, alimentati da forme di populismo sempre più sofisticate e presenti – a causa dei social – ventiquattro ore su ventiquattro nella vita dei cittadini, il pericolo che si arrivi al capovolgimento effettivo della coppia oppositiva vita/morte, interpretando il secondo termine quale valore nel caso in cui penda su un soggetto giudicato indesiderabile, è concreto, come dimostra l’elezione alla presidenza delle Filippine di un politico che già da sindaco aveva fatto discutere a causa delle cosiddette “Davao Death Squads”.
Rosa Ciglio