Vocalità potenti, emotivamente ricche ed educate, testi che non riescono ad essere scontati neanche a volerlo, la naturalezza che è quasi conversazionale nel passare dal racconto leggero al gioco, poi alla lugubre e impietosa analisi delle situazioni di vita, come dei minatori così degli internati negli istituti di igiene mentale. Stiamo parlando di Simone Cristicchi, – come lui stesso si definisce – l’antidivo per eccellenza, tra le voci più rappresentative della canzone d’autore e teatrale della musica italiana.
Pur nella sua semplicità, somatizzata dai suoi riccioli ribelli, Simone si pone di fronte al suo pubblico con estrema semplicità e gentilezza. Con lui sul palco un particolare personaggio, il fedelissimo Francesco Arcuri, che lo accompagna suonando una sega ad archetto; con grande stupore, emette un suono aggraziato, molto simile, per chi è profano del mestiere, a quello di un violino.
Vivendo un viaggio interiore tra musica e parole, cantando o recitando, riesce sempre a farci riflettere, portandoci altrove. Abbiamo intervistato Simone Cristicchi, artista dotato di un grande dono: quello di raccontare. Di seguito il resoconto della nostra chiacchierata con il cantautore romano.
Hai raggiunto la notorietà nel 2005 con il brano “Vorrei cantare come Biagio Antonacci”, suggellato nel 2007 con la vincita a Sanremo. Il grande pittore e writer americano Jean-Michel Basquiat diceva che quando una persona raggiunge il successo, non è la persona stessa a cambiare ma la gente che gli sta intorno. Simone, in base alla tua esperienza, cosa ne pensi?
«Mi definisco un caso abbastanza strano: la mia vita è cambiata nell’arco di un mese, nel momento in cui è uscito questo singolo, “Vorrei cantare come Biagio Antonacci” (che comunque esprimeva il fatto di non avere sbocchi e possibilità, cosa che capita a tanti giovani artisti). Una volta pubblicata la canzone, intorno a me è cambiato radicalmente l’atteggiamento della gente. Se fino a poco tempo prima potevo andare per la strada senza essere fermato, subito dopo è stato il caos: è stato uno choc, ancora oggi non sono abituato a questa cosa. Il successo è una specie di lente di ingrandimento: ti accorgi delle persone a cui tieni di più e quali, invece, vorresti allontanare. Il cerchio si stringe molto quando hai una grande popolarità. In realtà, poi vai a cercare qualità umane nelle persone che sono semplici.»
Attore, scrittore, cantautore e appassionato di disegno (fumetto). Come convivono in Simone Cristicchi tutte queste personalità artistiche?
«Convivono perché è il mio linguaggio, questi aspetti insieme mi completano. La cosa che credo mi descriva meglio artisticamente è il teatro-canzone, quello di Gaber, ovvero mescolare monologhi e canzoni. E così sono stati i miei primi due spettacoli: in “Centro di igiene mentale” cantavo insieme ad altri due attori, quasi un musical; il “Coro dei minatori di Santa Fiora” mi ha visto quasi in veste di narratore. Il terzo passo mi ha portato ad escludere completamente la musica suonata e il recitare. Mi piace anche il documentario, mi piace filmare tutto ciò che ho fatto quest’estate. Ho girato il tour dei minatori, sembrava di rievocare un po’ i Buena Vista Social Club; ho voluto creare questo film che si intitola, ironicamente, “Santa Fiora Social Club”.»
Nella celeberrima “Ti regalerò una rosa” porti alla luce il legame non lineare tra creatività e pazzia. Secondo il parere di Simone Cristicchi, in che modo attività artistica e conflitti interiori si influenzano reciprocamente?
«Ci sono molti equivoci su questo fatto, non è detto che il pazzo sia creativo a tutti i costi. È un pregiudizio. Come esistono tra le persone considerate normali esseri che hanno una spiccata sensibilità per l’arte, esistono anche tra i matti. Devo dire che ho incontrato, durante il mio percorso, dei personaggi che usavano l’arte per esprimere sé stessi, perché in altri modi non riuscivano. Ho conosciuto un signore che ha vissuto per all’incirca sessant’anni in un manicomio. Ancora oggi, sembra un bambino: inizialmente, in preda ad attacchi di panico, si graffiava la testa; una volta appresa l’esistenza dell’arte, quei graffi, ora, li fa su tela. Sfogar la propria rabbia, diventa una forma di espressione.
Simone, nel tuo caso, gli stati d’animo di tristezza come influenzano il processo creativo?
«Ho letto una frase ultimamente che diceva “Io scrivo solamente quando sono triste, quando sono felice esco”. In realtà, io la scrittura la vivo più come una folgorazione, l’arrivo di un’ispirazione. La verità è che, nelle mie canzoni, parlo poco di me, cerco di raccontare le storie tramite altri personaggi. É questo lo stile che adotto.»
Vincenzo Nicoletti