Sono 488 i giornalisti e le giornaliste in detenzione arbitraria nelle carceri di tutto il mondo: questi i numeri registrati da Reporters sans frontières (Rsf), organizzazione non governativa che agisce in tutela della libertà di espressione e dei diritti umani, con sede a Parigi. Per quanto stupisca il drastico incremento reso noto dall’Organizzazione (20% in più rispetto all’anno scorso), purtroppo sorprende meno conoscere i nomi degli Stati maggiormente responsabili di tali numeri: Cina, Myanmar e Bielorussia. Tre Stati differenti con un elemento in comune: la strenua volontà della popolazione di opporsi a tre regimi di stampo autoritario.
La situazione in Cina è peggiorata notevolmente in seguito al crescente controllo di Xi Jinping sul territorio di Hong Kong e, ad oggi, da sola detiene arbitrariamente (senza capi di accusa) un quarto di tutti i giornalisti in carcere nel mondo, corrispondenti a 127 professionisti. Questo è dovuto anche al cambiamento della legge sulla sicurezza nazionale che Pechino ha imposto al territorio autonomo nel 2020, e che fino allo scorso anno era riuscita a tutelare la libertà di stampa e la categoria dei giornalisti, che ad oggi al contrario si trova a vivere in condizioni di vulnerabilità.
Da inizio anno, invece, i militari hanno ripreso controllo del Myanmar, attraverso un colpo di Stato che ha portato al rovesciamento del governo e ad arresti massivi, fra cui quello della leader Aung San Suu Kyi, in carcere da febbraio.
Per quanto riguarda la Bielorussia, in seguito alla rielezione del Presidente Alexander Lukashenko, enormi proteste si sono verificate in tutto il Paese per contestare la regolarità delle elezioni. Mentre l’anno scorso i giornalisti in carcere erano 7, quest’anno a causa della forte repressione esercitata a danno di manifestanti e i giornalisti il numero è 32, di cui 17 giornaliste donne (contro i 15 uomini). Un dato mai visto prima e che fa riflettere, oltre che discutere.
488 persone in carcere per avere divulgato, o cercato di divulgare, la verità: è questa l’allarmante conclusione di Reporters sans frontières. Fra questi troviamo Raman Pratassevich, giornalista di Telegram Nexta, testata vicino all’opposizione del Presidente Lukashenko, arrestato nel maggio di quest’anno in seguito al dirottamento del volo Ryanair su cui stava viaggiando insieme ad altri 170 passeggeri per recarsi da Atene a Vilnius.
La giornalista Zhang Zhan, invece, si trova in regime di detenzione arbitraria in Cina con una sentenza di 4 anni, con l’accusa di avere contribuito alla “false informazioni tramite testo, video e altri media attraverso piattaforme come WeChat, Twitter e YouTube”, informazioni relative al focolaio di Covid-19 che sarebbe scoppiato a Wuhan. Le sue condizioni di salute diventano precarie giorno dopo giorno anche a causa dello sciopero della fame a cui si è sottoposta in opposizione alla sua condanna, oltre che alla mancanza di cure mediche per i detenuti.
In occasione della giornata mondiale dei diritti umani, invece, è stato accolto il ricorso degli Stati Uniti che da anni chiedeva l’estradizione del giornalista di Weakileaks, Julian Assange, detenuto dal 2019 nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, Londra. Una volta atterrato negli Stati Uniti, Assange rischia un totale di 175 anni di detenzione per i 18 capi d’accusa rivoltogli a seguito della violazione dell’US Espionage Act: avrebbe infatti diffuso documenti riservati che dimostravano chiaramente le responsabilità americane nella violazione di diritti umani e crimini di guerra, attraverso l’uccisione di civili inermi in Medio Oriente.
488 persone, di cui 60 donne, detenuti illegalmente quando, ricordiamo, la detenzione arbitraria è vietata dal diritto internazionale. L’Art. 9 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo infatti recita «no one shall be subjected to arbitrary arrest, detention or exile», sottoscritto anche nel Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici.
Giulia Esposito