Tutto il mondo conosce ormai la storia di Joaquín Guzmán Loera, detto El Chapo, il boss messicano del narcotraffico arrestato l’8 gennaio scorso. Alla notorietà del personaggio hanno sicuramente contribuito il fatto che questa sia stata la terza volta che viene catturato, dopo che già in 2 occasioni era riuscito ad evadere da carceri di massima sicurezza messicane, e l’intervista rilasciata a Sean Penn, concessagli allo scopo di coinvolgere l’attore nel progetto per la realizzazione di un film sulla vita del boss.
Ci si aspetterà di apprendere, nelle prossime righe, come e quando la Giustizia messicana processerà e imprigionerà per l’ennesima volta El Chapo, chiudendo definitivamente (si spera) uno dei capitoli più drammatici nella storia recente del Messico. E invece no. Perché per Guzmán questa volta si profila l’estradizione negli Stati Uniti, dove subirà un processo e sconterà una pena per reati commessi solo negli Stati Uniti: il Messico, rinunciando espressamente a custodire il boss entro i suoi confini, ha infatti deciso di accogliere la richiesta di apertura del procedimento avanzata già nei mesi scorsi da Washington, subito dopo l’ultima fuga in luglio. Almeno 7 giurisdizioni federali aspettano di giudicare El Chapo per i suoi crimini, tra cui spiccano il narcotraffico, il riciclaggio di denaro e l’omicidio; la pena complessiva stimata per questi reati consiste tra i 300 e i 400 anni di carcere.
Perché il Messico oggi elude così sbrigativamente l’obbligo morale, prima ancora che giuridico, di perseguire El Chapo, negando ai suoi cittadini quella giustizia che spetta loro di diritto, considerati gli efferati delitti commessi dal narco in patria?
11 luglio 2015: Joaquín Guzmán Loera scappa per la seconda volta da una prigione di massima sicurezza. Fa scavare a 10 metri di profondità un tunnel lungo 1,5 chilometri fin sotto la sua cella nel carcere di “El Altiplano”, dintorni di Città del Messico. La figuraccia delle autorità messicane assume dimensioni planetarie. Il Presidente Enrique Peña Nieto, che aveva fatto della (ri)cattura del Chapo, nel 2014, il vanto della sua amministrazione, il simbolo della riscossa delle istituzioni contro i narcotrafficanti, contro la corruzione che questi riescono ad insinuare in tutti i livelli dell’apparato statale e contro la violenza che riversano nelle strade messicane è costretto ad ammettere che il boss è di nuovo latitante, proprio come nel 2001. Il colpo per il Paese è tremendo: il Messico riceve subito forti pressioni dagli Stati Uniti affinché venga finalmente accolta la richiesta di estradizione del Chapo, rifiutata nel 2014, in modo da custodire in una prigione davvero sicura il pericoloso criminale, senza rischiare che fugga di nuovo. Gli USA avevano infatti già allora espresso il timore che il narcotrafficante avrebbe potuto approfittare delle maglie larghe del sistema giudiziario e penitenziario messicano, ritenuto corrotto a tutti i livelli. Città del Messico aveva però respinto sdegnata le insinuazioni, affermando che il suo criminale se lo sarebbe giudicata da sola, ritenendo inaccettabile che il popolo statunitense ottenesse giustizia prima di quello messicano. Le ultime parole famose.
Dopo la figuraccia di luglio, insomma, non c’è dubbio che stavolta il giustizialismo e il nazionalismo messicani dovranno cedere il passo all’ordine perentorio dettato, in tempo di campagna elettorale, direttamente dall’opinione pubblica yankee: che si rinchiuda negli USA il mostro colpevole di riversare nelle loro strade i quintali di eroina e cocaina che ogni anno ammazzano di overdose i figli d’America (l’unica, vera America, quella libera, democratica e soprattutto ricca)! Gli Stati Uniti hanno sempre considerato il narcotraffico come un problema esclusivo dei sottosviluppati vicini ispanici: il diavolo tentatore del Sud allunga gli artigli su una società altrimenti perfetta, corrompendola fino a farla diventare uno dei primi mercati al mondo per la cocaina. Repubblicani e democratici nella loro propaganda cavalcano da sempre e con successo il vecchio ritornello per cui, eliminando alla fonte il problema, cioè intervenendo contro i narcos direttamente a casa loro, lo si risolve pure in casa propria. E pazienza se gli Stati Uniti, patria del capitalismo selvaggio, dimenticano che l’offerta di un qualsiasi prodotto la costruisce la domanda: quello del consumo di droga è prima di tutto un problema sociale nordamericano, ma questo lo dicono perlopiù gli intellettuali. I politici invece ripetono che, essendosi i messicani dimostrati incapaci, per mettere al sicuro la Nazione El Chapo lo devono processare gli USA. “In God we trust”; dei latinos, ormai, mica tanto.
Peña Nieto, persa ormai da luglio ogni credibilità politica e ogni margine di contrattazione per far valere la dignità del suo Paese, si trova così costretto a sottomettersi al più umiliante dei diktat. Consola poco che gli Stati Uniti riconoscano magnanimi che a catturare El Chapo siano state le forze speciali messicane, perché poi aggiungono che se non ci pensava l’intelligence della DEA (e quel mattacchione di Sean Penn) a trovarglielo…
Sul fronte interno sembra che ormai non si polemizzi neanche più sui molteplici ed evidenti errori del Presidente messicano nella conduzione di una guerra ai narcos che, al netto di qualche vittoria di Pirro, giorno dopo giorno rivela l’inettitudine del corrotto sistema-Paese nell’estirpare un cancro che è prima di tutto sociale e culturale. In luglio la fuga di Guzmán fu festeggiata da una larga parte della popolazione; il consenso popolare proviene dal rancore covato nei confronti di uno Stato assente, visto come avversario e depauperatore di chi ha già poco o nulla. Magliette, gadgets, pupazzi con l’effigie del Chapo si sono presto diffusi in ogni angolo del Paese, testimoniando la vicinanza del pueblo a un personaggio che, pur con la bestialità dei suoi crimini, incarna il mito della sospirata ribellione e, nella maggior parte dei casi, della vittoria e della beffa nei confronti dello Stato-nemico. Questi meccanismi culturali qui da noi, al Sud Italia, sono fin troppo noti.
Che sarà ora del Chapo? Nonostante Procuratore generale, politici e persino accademici, gridando compatti “Stati Uniti, venitevelo a prendere!”, sembra ne abbiano rimosso l’esistenza, gli avvocati del boss hanno ricordato al Messico (purtroppo o per fortuna) i principi del suo Stato di Diritto: i legali hanno infatti tempestato di ricorsi, del resto normali in un procedimento normale di estradizione, la richiesta statunitense già avallata dalle autorità messicane. Tra i motivi dell’opposizione al giudizio made in USA c’è pure l’eventualità che lì possa essere applicata a Guzmán la pena di morte, cosa che impedirebbe l’estradizione perché il sistema penale messicano non prevede la pena capitale (se un caso simile si verificasse in Italia, per dire, anche il nostro Paese sarebbe costretto per legge a rigettare la richiesta). In attesa delle decisioni sui ricorsi, il procedimento potrebbe essere allungato anche di 2 anni, col Chapo che resterebbe per tutto il tempo in una prigione messicana: a questo proposito, gli Stati Uniti ribadiscono che il rischio che il boss scappi di nuovo è alto. Secondo Washington, qualche secondino sottopagato da comprare si troverà sempre: sicuramente non costerà quanto i giudici e i politici di questo Messico, che intanto invoca pietà per le sue Istituzioni, dalla dignità perduta da tempo.
Ludovico Maremonti