The End of Fu**ing World parla di due giovani, un po’ Bonnie e un po’ Clyde, anime smarrite e annoiate dalla piattezza di un’esistenza che sembra essere senza grandi significati. Ciò va a unirsi ad una situazione familiare disastrata che non è in grado di fare filtro a tutte le mancanze che il mondo odierno, frenetico e strumentale, ci presenta.
Lui per questo è quasi psicopatico, da piccolo ha immerso la mano nell’olio bollente solo per “sentire” qualcosa, uccide animali per lo stesso motivo e sarebbe pronto ad ammazzare anche la sua lei se non fosse investito dagli eventi. Lei, invece, è un’anarchica dalla noia facile, con una situazione familiare alle spalle danneggiata e dannosa, tra un padre che l’ha abbandonata e un patrigno stronzo e molesto che prevarica la madre.

Entrambi, comunque, sono in un mondo che malsopportano, dove il contatto con l’altro li disturba, le emozioni – quelle vere – sono atrofizzate e tutto sembra avere il carattere dell’effimero.
Si racconta, quindi, senza fronzoli e lenitivi, la solitudine del nostro tempo, nel formato più ribelle e congeniale che è quello della gioventù, di un malessere che molti giovani provano a un certo punto della loro biografia.

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Fermiamoci un attimo e proviamo a rispondere esulando un attimo dalla serie tv: da dove nasce questo malessere?

Forse inizia tutto da bambini, quando ci raccontano storie dall’epilogo disneyano, presentandoci un mondo dove il bene vince sempre, dove l’amore, quello vero, se si cerca, esiste, dove la giustizia ha la meglio sugli improbi.
Poi cresciamo e ci raccontano un’altra storia, quella vera, sui libri, dove il lieto fine non è scontato, anzi, ma è comunque fatta di vinti e d vincitori, di buone o cattive intenzioni, inducendoci a ragionare in maniera binaria e semplicistica.
Ma questo stride terribilmente con una realtà molto più variegata, fatte di tante sfumature che, inizialmente, non riusciamo a cogliere. Il passaggio nell’età adulta diventa, così, un tuffo nel mare glaciale del disincanto che ci porta a riorganizzare la nostra bussola cognitiva e a non vivere più di assoluti, emotivi, spirituali o etici che siano. Lasciandoci forse, un tantino delusi.

Da grandi (o “giovani adulti”), poi, capiamo di vivere in un contesto dove il rapporto strumentale è quasi la regola. Ciò porta a rivedere le nostre aspettative, le nostre esigenze affettive e la memoria genetica della pregnanza. Siamo costretti a cercare il compromesso affettivo, in quei rapporti di coppia che sanno di ricatto, dove – quando va male – l’uno è il secondino dell’altro, o nelle amicizie di circostanza. È la forma mentis della “buona occasione” consumistica, dello “shopping” direbbe qualcuno, che si impone anche nella dimensione sociale e antropica. Andiamo in un locale, scegliamo il vestito che ci sta meglio, che sono le persone, sperando non costi troppo per le nostre tasche (che sono le nostre qualità, estetiche e non).

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Poi ci sono le sopravvenienze di un periodo diverso. I messaggi che vedono la famiglia, il residuo romantico della monogamia e dell’unico amore, scontrarsi con l’inconciliabilità dei messaggi del sesso sempre più sdoganato e promiscuo. Ma persistono, irriducibili, le tappe del ciclo di vita cui volenti o nolenti dovremmo attenerci: studia, prenditi il diploma. Poi lavora, o continua a studiare, ma dopo fatti una famiglia che la domenica con i bambini devi andare a pranzo fuori a Fregene.

Ma non è tutto.

Siamo anche la generazione nata e cresciuta sui social. Piattaforme che creano un doppio virtuale della nostra vita, distorto, fittizio e poco attendibile. E allora ci rituffiamo nella vita “vera”, saturi di quella finzione, ma a ben vedere nemmeno quella è un granché. Quindi che fare? Qualcuno piomba nell’abulia, come vivesse la sua vita da spettatore, di un gioco di cui conosciamo le regole ma ci annoia a morte. E ciò si riverbera in una narcosi partecipativa, sociale, politica e culturale, intramezzata da rari momenti di euforia.

Questo pezzo sembra scritto da un rozzo Arthur Schopenhauer. Forse perché siamo i primi giovani adulti dall’orizzonte futuro indefinito, brumoso e che stagna in un presente dilatato per cercare un obiettivo, un significato ultimo che forse non c’è. Una realtà dai cui tutto sommato vorremmo evadere. Ma per andare dove?

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E quindi la prima risposta comportamentale è quella di chiudersi nel cinismo, in una crisalide di presunzione e sospetto verso l’altro, che diventa difficile da scalfire. Siamo stanchi del mondo, del prossimo, soprattutto di chi si è adeguato o non si accorge dell’insensatezza di questa ruota per criceti che la gente chiama vita.
Persone che si crogiolano nei loro presunti e ostentati traguardi o che si fan scudo dei loro fallimenti dietro una “facciata” aggressiva e antisociale.
Creiamo una distanza incolmabile tra noi individuo e tutto il resto. E ciò ci fa sentire soli. Tremendamente soli. Perché, forse, semplicemente lo siamo.

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Abbiamo deciso di dire basta a emozioni preconfezionate, industriali, mediatiche che non sono totalizzanti e coinvolgenti come immaginavamo e, se lo sono, non lo sono a lungo andare. Si preferisce a ragione una più onesta l’inmediatezza del sesso inteso come diversivo commercializzato mentre in noi coviamo un recondito risentimento verso il mondo.

Per fortuna, c’è chi riesce a immergersi, creandosi delle illusioni funzionali. Ma c’è anche chi non ce la fa, e non accetta questo scarto tra realtà e aspirazione. A quel punto l’unica via è la fuga, che può essere metaforica o fisica come nel caso dei nostri protagonisti di The End of Fu**ing World.

Enrico Ciccarelli

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