Russia, lunedì 12 giugno 2017. Migliaia di ragazzi e ragazze si riuniscono in tutto il Paese per sfilare lungo le vie delle città, in una grande manifestazione anti-corruzione, la seconda quest’anno dopo quella dello scorso 26 marzo.

Il leader è sempre lui: Alexei Navalny, volto dell’opposizione anti-Putin, molto popolare tra i più giovani e nemico numero uno del Cremlino. È riuscito a ottenere dalle autorità l’autorizzazione a percorrere Sakharov Prospect, una delle strade principali della capitale, non di più. In quello stesso giorno, infatti, la Russia è pronta a celebrare la sua festa nazionale in ricordo della “dichiarazione di sovranità”, che nel 1990 diede inizio alla disgregazione dell’Unione Sovietica. Nonostante il divieto, Navalny chiede ai suoi sostenitori di riunirsi in un’altra area più visibile: quella designata alle celebrazioni istituzionali.

Passano poche ore e la situazione diventa molto tesa. La polizia ha l’ordine di intervenire e reprimere il corteo “selvaggio” perché non autorizzato: gli “omon” – agenti in tenuta antisommossa – trascinano via con la forza centinaia di manifestanti.

Lo stesso avviene in molte altre città del paese: il risultato è di circa 1750 arresti in un solo giorno, soprattutto a Mosca (750) e San Pietroburgo (900). Il Ministro dell’Interno sostiene che queste cifre, fornite dalle ONG, non sono attendibili, ma il numero dei fermi è in continua crescita. Gli attivisti denunciano e documentano anche numerosi abusi, pestaggi e violenze commessi dalla polizia a scapito dei manifestanti.

Secondo Denis Krivosheev, vicedirettore per l’Europa e l’Asia centrale di Amnesty International «Le autorità russe hanno usato la tattica degli arresti di massa per stroncare manifestazioni pacifiche ma non si sono fermate a questo. A Mosca e San Pietroburgo centinaia di arrestati sono stati trattenuti nelle stazioni di polizia in condizioni palesemente degradanti, in celle sovraffollate e prive di brande, lasciati quasi senza cibo e con grandi difficoltà ad accedere ai servizi igienici».

Navalny, già arrestato durante le proteste del 26 marzo, questa volta non riesce neppure a prendere parte alla manifestazione.

Mezz’ora prima del concentramento in piazza viene fermato e arrestato dalle autorità davanti alla sua abitazione. Qualche ora dopo è condannato a 30 giorni di detenzione per aver violato le norme sui raduni pubblici.

L’arresto di Navalny  e le altre detenzioni di massa in Russia hanno subito preoccupato l’opinione pubblica internazionale, allarmata dalla nuova azione di repressione contro la libertà di espressione e associazione. Anche la Casa Bianca ha commentato negativamente l’accaduto, tramite la dichiarazione del portavoce Sam Spicer, secondo cui «I russi meritano un governo che sostenga l’uguaglianza di trattamento davanti alla legge e la possibilità di esercitare i loro diritti senza timori di rappresaglie».

Come denunciano i rapporti di Human Right Watch e Amnesty International, nel corso del 2016 il Cremlino ha rafforzato i sistemi di controllo governativo, riducendo ulteriormente gli spazi di cittadinanza.

Una delle misure che preoccupa maggiormente le associazioni per i diritti umani è la cosiddetta “legislazione anti-estremismo” (conosciuta anche come “legge Yarovaya”, dal nome della politica che lo ha creato, Irina Yarovaya).

Il pacchetto di provvedimenti, firmato il 7 luglio scorso dal presidente Putin con lo scopo di combattere in modo più efficace il terrorismo, conferisce di fatto maggiori poteri alle autorità russe, con importanti conseguenze sulla libertà di dissenso ed espressione, già in passato colpiti dalle severe norme governative. Con la revisione di alcuni fondamenti del Codice penale russo, vengono introdotti nuovi crimini tra cui “l’istigazione o il coinvolgimento nell’organizzazione di disordini di massa” – perseguito con pene comprese tra i 5 e i 10 anni di carcere– e quello di “mancata denuncia” su tutto ciò che è considerato estremismo, terrorismo, colpi di Stato, omicidi di uomini dello Stato.

Nel corso del 2016 gli eccessi nell’utilizzo della legge sono stati numerosi. Secondo il SOVA Center for Information and Analysis — una ONG che si occupa di analizzare i dati riguardanti razzismo, nazionalismo e radicalismo politico — il 90% delle «condanne ai sensi delle norme anti-estremismo si riferivano a dichiarazioni e condivisioni di articoli sui social network».

Amnesty riporta il caso, risalente a febbraio del 2016, di Ekaterina Vologženinova, una commessa residente in una cittadina negli Urali, processata con l’accusa di «”incitamento all’odio e all’inimicizia per motivi di origine etnica”, ai sensi dell’art. 282 del codice penale», per aver condiviso un post in cui criticava l’annessione della Crimea alla Russia. Condannata, ha dovuto scontare 320 ore di “lavoro correttivo” non pagato.

Le leggi anti-estremismo stanno colpendo anche biblioteche, associazioni no profit, giornalisti, aziende telefoniche e cittadini che manifestano dissenso nei confronti del governo. Emblematico è l’episodio, sempre riportato da Amnesty, di un gruppo di agricoltori di Kuban, una regione nella Russia meridionale, bloccati e multati perché stavano viaggiando verso Mosca con i loro trattori per protestare contro la speculazione su alcuni terreni agricoli. Condannato a 10 giorni di detenzione il loro leader Aleksej Volčenko.

Ma la legge Yaroyava colpisce anche gli organismi religiosi e soprattutto le attività missionarie, fortemente limitate nei tempi e negli spazi d’azione: per organizzare una processione religiosa ogni partecipante deve ottenere un’autorizzazione rilasciata dai responsabili della comunità di appartenenza. Nel 2016 sei organizzazioni religiose sono state dichiarate illegali perché considerate estremiste, tra cui cinque comunità di Testimoni di Geova, che la Corte Suprema della Federazione Russa ha condannato lo scorso 20 aprile.

Le severe restrizioni riguardanti l’attività missionaria, ufficialmente destinate a contrastare la predicazione radicale islamica, hanno colpito decine di associazioni protestanti e altri nuovi movimenti religiosi non noti per attività estremiste nel giro di un anno.

L’episodio del 12 giugno, dunque, è solo l’ultimo di una serie di manovre controverse che il governo russo sta attuando per combattere l’estremismo. Un estremismo di cui in Russia oramai può essere accusato chiunque, soprattutto coloro che, come Navalny, si mostrano particolarmente critici nei confronti del Cremlino, o semplicemente divergenti rispetto all’ortodossia della cultura russa.

Rosa Uliassi

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