Nel governo è scontro aperto sul tavolo dell’autonomia da Roma richiesta dalle regioni del nord (per ora ufficialmente da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna). Come conciliare un’esigenza democraticamente espressa con un governo che per metà vede nel federalismo un pericoloso mostro da evitare? Secondo il Movimento Cinque Stelle la Lega a vocazione nazionale (e nazionalistica) ha trovato la risposta sbagliata: le gabbie salariali, una misura «discriminatoria e razzista» secondo i partner di governo di Salvini. Ma vediamo meglio di cosa si tratta.
Per prima cosa facciamo un passo indietro. Le gabbie salariali sono un sistema di calcolo dei salari che calibra gli stipendi in base al costo della vita di una particolare macro-regione del Paese. Sono state introdotte per la prima volta nel secondo dopoguerra, per poi essere cancellate nel 1969 e formalmente abolite nel 1972 dopo anni di lotte sindacali che portarono anche all’omicidio dei braccianti di Avola nel 1968.
Chi critica le gabbie salariali condanna, come hanno fatto gli esponenti del Movimento Cinque Stelle, il forte danno che arrecherebbero al centro-sud, con stipendi più bassi per i lavoratori meridionali rispetto a quelli derivanti da una contrattazione collettiva su base nazionale a causa del più basso costo della vita al di sotto di Roma. In sintesi, si tratterebbe nelle parole della metà gialla del governo di «alzare gli stipendi al nord e abbassarli al centro-sud». Ma è davvero così?
La Lega si difende: non sono gabbie salariali
Ma Salvini non ci sta, e respinge al mittente ogni accusa di voler tornare indietro di mezzo secolo. Anzi, lui vuole guardare avanti. «Spero che nessuno tifi per il passato, per il vecchio», ha dichiarato il Ministro dell’Interno con uno sguardo ostinatamente rivolto al futuro quasi renziano.
Per trovare nel Carroccio parole che non si limitino alla vuota retorica bisogna citofonare a casa di Erika Stefani, ministro per gli Affari regionali e le Autonomie. Il tema caldo è l’introduzione delle gabbie salariali nel mondo della scuola, che la Stefani nega: «Non c’è nessuna gabbia salariale, sono strumenti previsti che esistono già nel nostro ordinamento. Si tratta di incentivi previsti dalla contrattazione integrativa, per incentivare la permanenza e la continuità formativa».
Il Ministro insiste richiamando le esigenze delle regioni settentrionali, forse dimenticandosi dei tanti meridionali che hanno votato Lega. «Si tratta di una problematica che viene sollevata da alcune regioni per fronteggiare la carenza d’organico dovuta alla richiesta di riavvicinarsi a casa – afferma la Stefani –. Tra uno che lavora vicino casa e uno che deve munirsi di un appartamento a Milano è ovvio che c’è una differenza».
Salvini contro… tutti
La proposta della Lega non ha incontrato solo le critiche del Movimento Cinque Stelle, ma ha anche raccolto il niet dei sindacati, che hanno annunciato la linea dura. Una «proposta anacronistica e sbagliata» per la CGIL, mentre per la CISL si tratta di una «polemica inutile, siamo nell’antistorico».
Ma anche la stampa si è schierata quasi all’unanimità contro le gabbie salariali o presunte tali promosse da Salvini. Se ci si poteva aspettare che il manifesto mettesse in evidenza che per aumentare parzialmente il potere d’acquisto dei lavoratori settentrionali si peggiorerebbe ulteriormente la situazione di un meridione che conta già due milioni e mezzo di disoccupati, meno prevedibile è la condanna netta di quello che qualcuno definirebbe il quotidiano «dei padroni».
Sul Sole 24 Ore, infatti, Pasquale Tridico mostra la scarsa affidabilità del rapporto economico su cui si fonda la proposta leghista. Esso, infatti, con la sua pretesa di dividere l’Italia in macro-regioni è effettivamente anti-storico. Non si può ignorare, secondo Tridico, che le maggiori differenze si riscontrano anche all’interno di una stessa grande città muovendosi dal centro alle periferie, e che quindi un discorso tarato sulle regioni perda di senso. Se proprio bisogna guardare al passato, piuttosto, si potrebbe guardare con favore agli investimenti statali al sud, su un modello keynesiano. Perché il vecchio che avanza non è tutto uguale.
Davide Saracino