«Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!»
Di questa famosa e amara constatazione si struggeva il sommo poeta di Firenze nel VI Canto: quando, alle soglie del Purgatorio, l’abbraccio tra Virgilio e Sordello, entrambi mantovani, dà vita alla riflessione dantesca sulla crisi e la decadenza di un’Italia che combatte in ogni suo angolo, di un’Italia abbandonata che compiange il suo passato di trionfi e glorie di epoca imperiale che ne fecero centro del mondo.
«Vieni a vedere come la tua Roma piange
abbandonata e sola, e chiama ad ogni ora:
“Cesare mio, perchè non mi accompagni?
Vieni a vedere come si ama la gente!
E se nulla di tutto ciò ti muove a compassione
vergognati almeno della tua fama in Italia.
E se mi è concesso, o sommo Dio
che fosti crocifisso per noi in terra,
sono i tuoi occhi giusti rivolti altrove?».
È il disperato appello del poeta ad Alberto I d’Austria, imperatore nel 1298 mai recatosi in Italia: da qui Dante si rivolge con sarcasmo alla sua Firenze, continuamente mutevole nelle usanze, abitata da cittadini che si affannano a ricoprire cariche politiche, riempendosi la bocca di giustizia. La città è qui rappresentata come una vecchia ammalata incapace di riposare in pace persino sulle piume, che maschera il dolore continuando a rigirarsi.
«E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma»
Attraverso questo Canto di argomento politico, Dante intende dar voce alle proprie idee circa la situazione catastrofica che regna in Italia e lo fa servendosi del contrappunto di Sordello, autore del Compianto in morte di Ser Blacatz, nel quale invitava i suoi contemporanei accusati di codardia, a cibarsi del cuore del defunto acquisendone i principi. La specificità del suo personaggio risiede nella perdita di alterigia avvenuta non appena egli viene a conoscenza delle origini mantovane di Virgilio, sancita da abbraccio conciliatorio. In opposizione a questo affetto tra sconosciuti si staglia l’invettiva contro l’Italia, devastata da lotte intestine, come dimostra l’esempio di Firenze e dello scontro tra Guelfi e Ghibellini. L’attribuzione delle cause di questa situazione è imputabile all’assenza di un saldo potere centrale che dovrebbe essere rappresentato dall’Impero. È qui raffigurata l’immagine di un’Italia selvaggia, paragonata ad un cavallo che necessita di essere domato, dilaniata dalle ribellioni dei Comuni, ignorata dagli imperatori che preferiscono occuparsi delle cose tedesche, incuranti del fatto che il loro potere derivi direttamente da quello di Cesare e Augusto.
«Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite dite:
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno »
Nel 1818, con All’Italia, Giacomo Leopardi conferma l’insanabile frattura tra le grandezze del mondo antico e la decadenza del tempo moderno, tempo in cui gli italiani muoiono senza onore al servizio dello straniero mentre, alle Termopili, i soldati andarono incontro alla morte con il coraggio e l’ardore di chi combatte in nome dell’amor patrio, infliggendo atroci pene al nemico «come lion di tori entro una mandra».
«Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari,
Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo»
E, quanto mai in tempo di guerra, nel confronto con l’alterità, emerge con forza l’amore per la propria terra in nome della quale si va a morire: è il risveglio di un nazionalismo che diventa solidarietà, fratellanza, uguaglianza che crea la mimetizzazione con l’altro, vestito dei nostri stessi abiti:
«Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni
Sono un frutto
d’innumerevoli contrasti d’innesti
maturato in una serra
Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia
E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre»
Con Italia, Giuseppe Ungaretti si fa interprete di ungrido unanime, di quel sentimento che accomunava molti intellettuali convinti che il massacro della Prima Guerra Mondiale fosse la via necessaria per far degli italiani un popolo. Ma non basta. Ungaretti dà voce ad un amore per il suo paese privo di ogni intenzione bellicosa: si ritrova figlio d’Italia con la sua uniforme, si scopre pronto a morire come i suoi avi in nome di una guerra che si rivelerà priva di significato.
«Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno; c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione. Posso essere un rivoltoso, ma non amo la guerra. Sono anzi un uomo della pace. Non l’amavo neanche allora, ma pareva che la guerra s’imponesse per eliminare la guerra. Erano bubbole, ma gli uomini a volte si illudono e si mettono dietro alle bubbole».
E nei secoli riecheggia ancora, sempre attuale, il grido spento e amaro di chi si strugge per i fallimenti del proprio paese. Una storia che si ripete, come i cicli naturali pirandelliani, come le catastrofi che si restringono a confermare la radice ostinata della vita. È la lunga notte di un’Italia che disperde per il mondo i suoi figli, privati della propria identità, la cui estraneità rispetto alle radici rimanda a quella dei protagonisti dell’Italy piangente di Giovanni Pascoli.
«Vi chiamerà l’antica madre, o genti,
in una sfolgorante alba che viene,
con un suo grande ululo ai quattro venti
fatto balzare dalle sue sirene.
[…]
“Tornerai, Molly?” Rispondeva: – Sì!»
Sonia Zeno