C’è un qualcosa di opprimente e sinistro in tutto The Place, una sensazione strisciante che si fa strada fra le pieghe della nostra coscienza vellicando la nostra morale e il nostro modo di vedere il mondo.
Il film, in estrema sintesi, racconta la storia di un uomo che tanto uomo non è, un’entità mefistofelica o deistica (per come vogliate vederla) più che genio della lampada, intento a dirigere per corrispondenza le vite di tutti gli uomini, special modo coloro che si trovano a bazzicare per il bar, lo stesso che poi da il nome al film.

Il più delle volte, il nostro Valerio Mastandrea, quest’essere dall’aria perennemente logora e imbronciata, vi apparrà come un cinico burattinaio, altre volte soltanto come un semplice strumento nelle mai di qualcuno ancora più grande, altre ancora come un essere maledetto da chissà quale artificio, e proprio in questo dubbio ontologico sta gran parte dell’interesse per tutta la storia.

The Place è una rivisitazione del Death Note, ridimensionato e più europeo.

Una storia che vede il bravissimo attore sempre seduto in questo bar, in una posizione comoda ma frequentemente indaffarata, che affronta un mondo che ai suoi occhi gli risulta continuamente estraneo, con la curiosità clinica di uno psicologo che si mischia all’indolente rassegnazione verso il genere umano (quello sì, conosciuto), condannato – a suo dire – al vizio, all’egoismo e alle più indicibili mostruosità. Sottobraccio porta con sé quell’agenda, dove risiede – forse – tutto il suo potere che è un po’ una rivisitazione del Death Note orientale ma ridimensionato e più europeo, dove invece di decidere chi deve morire e chi no, qui, si stabilisce semplicemente i pegni da pagare in cambio di un desiderio.

the place genovese

Pegni duri, che implicano sacrificio e tanti dilemmi etici in chi li accetta, che danno al film quell’aura di fascino e ne arricchiscono la diegesi, composto da continue interazioni tra l’entità e i suoi “clienti”, concentrate sempre in un unico ambiente, il che potrebbe stancare, ma i dialoghi e le biografie che si avvicendano al tavolo di quell’anonimo locale sono così semplici, e al contempo interessanti, da lasciare ben al riparo dal tedio.

Visto il soggetto così stravagante che, ricordiamo, è preso pari pari dalla serie statunitense The Booth at the End, The Place si potrebbe anche scrivere da solo. Al regista, Paolo Genovese, va dato atto di aver saputo montare con perizia le varie storie, tante e frammentate, la cui evoluzione viene dosata allo spettatore in microscopiche briciole di pane con cui sfamare la sua crescente curiosità. Alcuni di questi subplot, tenderanno ad intrecciarsi, dando quel quid in più all’intrigo. Poi c’è una fotografia, spenta, livida, a tratti glaciale, tale che dalle bocche dei protagonisti pare possano uscire da un momento all’altro delle nuvolette d’aria condensata. Attori tutti bravi e in parte (anche la Ferilli!), per quanto incantenati in personaggi molto rigidi e prevedibili nelle esternazioni.

the place mastandrea

«Tu sei venuto da me. Non ti ho mai obbligato a fare niente» ripete quasi ossessivamente Mastandrea ai commensali, quando questi sembrano cedere sotto il peso delle loro scelte, come a voler scrollarsi di dosso tutto il peso delle conseguenze. Lui da delle possibilità, delle opportunità, e nel dirlo ricorda un bancario delle réclame pubblicitarie di Mediaset, ed è anche vestito allo stesso modo, solo che qui la fregature non è dietro l’angolo. Un patto è un patto, d’altronde, e una stretta di mano, spesso, vale più di mille firme.
E quindi passerete gran parte del film ad aspettare l’agnizione del protagonista, che concorrerà insieme all’epilogo dei subplot a portarvi fino al termine della visione.

Se un difetto possiamo trovare nel film è che a volte rimane troppo in superficie, parla e si addentra in massimi sistemi ma si ferma lì, un attimo prima di sviscerare una poetica e una visione propria delle cose, preferendo lasciare al sottinteso o esaurendo tutta la sua carica artistica in situazioni banali (la suora che vuole ritrovare Dio, l’uomo che vuole salvare una bambina da un malintenzionato etc..) e in una retorica cinematografica fin troppo tradizionale.

Il finale, lascia ampio spazio a elucubrazioni di ogni tipo, come a voler dire tutto o, forse, anche niente. A qualcuno soddisferà e ad altri no.

In sintesi, The Place è un film che si rivolge al grande pubblico ma lo fa in una veste da film d’autore, evincibile nel montaggio quanto nella narrazione. È quindi un prodotto estremamente moderno e con uno stile ben definito. E il cinema italiano, oggi più che mai, ha bisogno di prodotti del genere.

Enrico Ciccarelli

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