Gran parte del mondo scientifico è ormai d’accordo nell’affermare che il surriscaldamento globale è direttamente riconducibile alle attività umane. Secondo il rapporto Fao “Tackling Climate Change through Livestock A global assessment of emissions and mitigation opportunitiesil 14% di tutte le emissioni di gas serra (GHG) prodotte dagli esseri umani provengono dalla filiera produttiva zootecnica o, per meglio dire, dagli allevamenti intensivi.

Quest’ultimo termine sta a indicare quella particolare attività agricola che fa uso di tecniche industriali e scientifiche per ricavare la massima quantità di un determinato prodotto al minimo costo e nel minimo spazio. E’ importante sottolineare che questo tipo di attività prevede l’uso di molti macchinari, e quindi di una consistente quantità di combustibili fossili, e soprattutto di farmaci veterinari utili a prevenire malattie che potrebbero facilmente svilupparsi e diffondersi in spazi così ristretti.

In che modo questo tipo di allevamenti influisce sull’ambiente? Questi farmaci veterinari, utilizzati per “difendere” gli animali, possono risultare pericolosi per la salute umana? Partiamo dal primo interrogativo. Innanzitutto bisogna essere consapevoli del fatto che la gran parte della carne, dei prodotti caseari e delle uova che si trovano nei supermercati viene prodotta proprio negli allevamenti intensivi. Secondo la Fao, dal 1967 al 2011 la produzione globale di pollame è aumentata del 700%, quella delle uova del 350%, la carne di maiale del 290%, quella di pecora e capra del 200% mentre la produzione di latte e carne bovina del 180%.

Quanto costa, in termini di risorse ambientali, produrre un solo chilo di carne?L’economista Frances Moore Lappé ha calcolato che in un solo anno negli Stati Uniti sono stati prodotti 145 milioni di tonnellate di cereali e soia da cui sono stati ricavati solamente 21 milioni di carne, uova e latte. Un altro fattore da tenere in considerazione è la quantità d’acqua utile sia alla produzione del foraggio, che va ad alimentare gli animali, che all’abbeveraggio degli stessi e alla pulizia delle stalle. Secondo il Water Footprint, sito gestito dall’UNESCO-IHE, in media per produrre un solo chilo di carne sono necessarie 15 mila litri d’acqua. Ovviamente quando si parla di water footprint, letteralmente impronta idrica, bisogna tener conto di vari fattori. E’ doveroso specificare che, come spiega anche Ettore Capri, direttore del Centro di ricerca per lo sviluppo sostenibile (Opera – UCSC), circa l’85% dei 15.000 mila litri suddetti è costituita dalla cosiddetta “Green Water” ovvero acqua piovana, fonte rinnovabile. L’acqua realmente consumata è quella che serve per i processi produttivi e l’irrogazione dei campi (Blue Water) e quella necessaria per la depurazione degli scarichi (Gray Water), ovvero circa il 15% del totale.

Altro problema da non sottovalutare è quello costituito dallo smaltimento delle deiezioni del bestiame. Se in una piccola azienda questo può rappresentare un vantaggio, una risorsa utile al mantenimento della fertilità del suolo, negli allevamenti industriali le enormi quantità di escrementi sono un vero e proprio problema. Questi infatti se smaltiti “liberamente” possono essere causa di disastri ambientali di non poco conto poiché la terra non riuscirebbe ad assimilare quantità così grosse.

Passiamo ora al secondo interrogativo, quello riguardante i farmaci veterinari somministrati agli animali. Come dicevamo prima, le condizioni in cui questi vengono allevati, ovvero ammassati in spazi ristretti, favoriscono la trasmissione di malattie e la mutazione di agenti patogeni in ceppi più pericolosi. Per questo motivo molti allevatori industriali somministrano antibiotici al fine di prevenire queste malattie, indipendentemente dal fatto che gli animali siano a rischio contagio o no. Secondo l’US Food and Drug Administration Quasi l’80% di tutti gli antibiotici distribuiti nel 2009 negli Stati Uniti erano destinati ad animali da allevamento”.

Dal sito del Ministero della Salute apprendiamo che l’uso eccessivo di questi antibiotici in medicina veterinaria, così come in agricoltura, “…può essere considerato una delle cause dello sviluppo e della diffusione di microrganismi resistenti alla loro azione e quindi alla loro perdita di efficacia”. Per questo l’OMS, l’Ordine Mondiale della Sanità, raccomanda lo stop all’uso degli antibiotici negli animali d’allevamento sani, al fine di prevenire il gravissimo problema dell’antibiotico-resistenza nell’uomo. Anche l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha affermato che questo fenomeno non può più essere sottovalutato.

L’economista inglese Lord O’Neil ha stimato che nel 2050 le infezioni batteriche causeranno circa 10 milioni di morti. In Europa ogni anno sono 4 i milioni di persone colpite da infezioni da germi antibiotico-resistenti che causano 37 mila morti l’anno. L’Italia è la nazione europea col più alto numero di persone colpite da queste infezioni.

Senza dubbio gli antibiotici rappresentano uno strumento fondamentale nella lotta ai diversi tipi di infezioni ma, come abbiamo visto, l’uso eccessivo di questi è la causa dello sviluppo di batteri resistenti e rende quindi l’uso degli stessi inefficace e, cosa più importante, sta dando vita a una delle più gravi minacce per la salute pubblica. La comunità scientifica internazionale crede sia opportuno un cambiamento culturale nella popolazione e nella comunità medica che porti a un uso ragionato degli antibiotici e parallelamente afferma che ci sia bisogno di incentivi all’introduzione di terapie innovative capaci di far fronte ai ceppi resistenti.

In conclusione possiamo certamente affermare che l’eccesso non porta mai a risultati positivi. Ma cosa sono gli allevamenti intensivi se non un’attività atta a soddisfare l’eccessivo consumo di carne da parte degli esseri umani?

Marco Pisano

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