Le notizie più recenti, che hanno riferito di un ulteriore attacco aereo il 16 agosto scorso nel distretto di Abs, in Yemen, contro un ospedale gestito da Medici Senza Frontiere – l’organizzazione internazionale che dal 1971 presta soccorso sanitario nelle zone in cui l’assistenza medica non è garantita – è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Nelle ultime settimane, infatti, gli aerei della coalizione saudita a sostegno del governo del presidente Abderabbo Mansour Hadi contro i ribelli yemeniti non hanno risparmiato neanche i luoghi di cura, nonostante Medici Senza Frontiere avesse condiviso le coordinate satellitari dei propri ospedali con le parti in conflitto.

Eppure avrebbero dovuto, in base alle norme di diritto internazionale umanitario, ovverosia quell’insieme di norme di diritto internazionale pubblico che ha obiettivo di limitare gli effetti dei conflitti armati sui combattenti e sulle popolazioni civili.
Sul tema in commento, si ricordano le Convenzioni di Ginevra del 1949, che impegnano gli Stati firmatari a proteggere i feriti, i malati, i naufraghi, il personale medico, le ambulanze e, per l’appunto, gli ospedali.

Come evidenziato dal portavoce dell’organizzazione francese, nonostate le rassicurazioni ufficiali i militari sauditi non sono riusciti a «controllare l’uso della forza per evitare attacchi contro gli ospedali».

Di conseguenza, il protrarsi della situazione, che mette in pericolo tanto i pazienti quanto i medici e gli infermieri di Medici Senza Frontiere, ha costretto l’organizzazione a prendere una soluzione tanto drastica quanto inevitabile: ritirare il suo personale da sei ospedali situati nel nord dello Yemen.

La notizia rappresenta indubbiamente una sconfitta per il mondo civilizzato, o presunto tale, che continua a chiudere gli occhi su massacri incontrollati come quello a cui stiamo assistendo nell’estremità meridionale della Penisola araba.

Dunque, ad essere colpiti sono ora anche gli operatori umanitari, quasi a significare che da queste parti per l’umanità non c’è più posto. Una constatazione decisamente amara, specie all’indomani della diffusione della foto di un bimbo ricoperto di sangue e macerie in un altro disperato luogo di guerra, la Siria.

Carlo Rombolà

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