È la più grande isola del mondo, la Groenlandia, tanto che si fa fatica anche solo a immaginarla: la sua estensione supera quella di Italia, Francia, Germania, Spagna, Grecia e Portogallo messe assieme. Con 2.220.093 km² il Regno di Danimarca, che la controlla come regione autonoma, avrebbe buon diritto di definirsi come il dodicesimo Stato più grande al mondo e forse anche quello più grande d’Europa, se escludiamo il gigante eurasiatico russo. L’isola che Trump desidera è composta per circa l’83% di acqua, ghiacciata più o meno da sempre, e abitata da soli 57mila abitanti, tradizionalmente dediti alla caccia di foche e balene e comunque dipendenti per quasi tutto dagli aiuti danesi. Oltretutto, il paese si ritrova il triste primato del più alto tasso di suicidi al mondo – un po’ per l’alternanza di sole di mezzanotte e notte polare, ma sopratutto per lo sradicamento della comunità Inuit successivo all’occupazione danese, dato inoltre accentuato dai cambiamenti climatici, come dimostrato di recente da una ricerca.
È anche per tutte queste ragioni che inizialmente parte della stampa internazionale aveva accolto con diffidenza quest’articolo del Wall Street Journal, che il 16 agosto riportava un’indiscrezione secondo cui Donald Trump si era “ripetutamente” informato presso i suoi collaboratori sulla possibilità per gli Stati Uniti di comprare la Groenlandia dalla Danimarca. Del resto, lo stesso articolo parlava di colloqui con gli strateghi della Casa Bianca “con vari gradi di serietà”. La solita boutade elettorale per le presidenziali USA del 2020, sembrava lecito pensare.
La risposta piccata di Copenaghen, dove il governo è cambiato da poco più di un mese, naturalmente non si è fatta attendere: l’ex primo ministro Lars Løkke Rasmussen ha parlato di un “pesce d’Aprile fuori stagione”, mentre la neo-premier socialdemocratica Mette Frederiksen ha fatto sapere categoricamente che l’isola non è in vendita.
La vicenda ha avuto ancor più risonanza quando l’indiscrezione è stata confermata dallo stesso Trump all’emittente Usa Sky News: rispondendo alle domande dei giornalisti, ha ammesso di voler vagliare questa possibilità “perché per gli Stati Uniti sarebbe bello strategicamente”, “un grande affare immobiliare, ci si possono fare un sacco di cose”.
Gli interessi Usa per la Groenlandia scatenati dalla “fake news” dello scioglimento dell’Artico
La vicenda è interessante e vale la pena di essere approfondita per due ragioni: in primis, perché sta avendo un’ampia risonanza in Danimarca e negli States, e si configura quantomeno come un rilevante incidente diplomatico tra due paesi alleati (entrambi membri fondatori della NATO) e con molti risvolti strategici; inoltre perché conferma, come avevamo accennato, che il climate change ha enormi conseguenze geopolitiche nel destabilizzare il sistema di relazioni internazionali attuale. E tutto ciò dovrebbe preoccuparci almeno quanto le sole conseguenze ambientali dello scioglimento dei ghiacci.
C’è del marcio in Danimarca, almeno nel rapporto tra la madrepatria e il territorio non incorporato groenlandese, tutt’altro che saldo. Trump, o meglio gli strateghi della Casa Bianca, lo sanno bene. Il piccolo Regno danese, suo malgrado, si è ritrovato ad avere un’appendice artica tutt’altro che accessoria, per di più oltreatlantica e impossibile da controllare senza una grande flotta.
I danesi non si sentono un Paese transcontinentale né tantomeno aspirano ad avere un buon rapporto con i groenlandesi, e sono in questo ampiamente ricambiati. Le popolazioni indigene hanno un fiero senso di appartenenza e attualmente la Groenlandia vive un complesso rapporto post-coloniale di inferiorità: c’è l’idea diffusa tra la popolazione di esser sempre stati sfruttati dai danesi e che non si arriverà mai a un reale rapporto paritario. Pur avendo un governo e un primo ministro autonomo, le decisioni sulla difesa e sulle ingenti risorse naturali dell’isola spettano a Copenaghen, e c’è una fetta di società che vorrebbe la totale indipendenza.
La proposta di Trump – che pure ha più volte definito il climate change “una fake news” – lungi dall’essere un’uscita elettorale poco attenta, si inserisce in questo quadro: come gran parte dell’Artico, l’ultima Thule è da sempre un peso immobile e irrilevante nella storia, almeno finché è circondata dai ghiacci. Se i ghiacci si sciolgono e si incomincia a prefigurare un Artico totalmente disciolto al sole del riscaldamento globale, ecco che anche l’estremo nord, terra di Inuit e orsi polari, diviene strategicamente appetibile e politicamente instabile.
Nemmneno gli americani – che hanno già provato a comprare la Groenlandia, l’ultimo a provarci fu Truman nell’immediato dopoguerra – pensano seriamente che la Groenlandia possa davvero diventare la 51esima stella sulla bandiera americana: non siamo alla bancarella del mercato.
Ma a Washington possono essere ben contenti della situazione di alterità attuale tra Nuuk e Copenaghen e cercano di sfruttare la situazione a loro vantaggio, magari per trattare un’altra base militare americana tra i ghiacci, oltre alla già presente Thule Air Base, la più settentrionale degli Stati Uniti e a soli 1.200 chilometri dal Circolo polare.
Non è un caso, ad esempio, che mentre i politici danesi si affannano a rispondere a Trump con dichiarazioni bellicose, il ministero degli Esteri della Groenlandia ha diffuso una nota nella quale ricorda che l’isola “non è in vendita, ma siamo pronti a fare affari”.
“Ci si possono fare un sacco di cose”!
Già. Perché quest’ossessione estiva per una terra ghiacciata? Perché la Groenlandia è così strategica per gli americani, tanto da farne ipotizzare l’acquisto a suon di milioni di dollari? Al di là delle beghe interne al Regno danese, la regione è tra le più strategiche del globo e lo scioglimento dei ghiacci rende a un po’ di potentati economici la vita molto più semplice.
Intanto per le ingenti risorse naturali, visto che secondo le stime sotto i ghiacci si celano risorse preziosissime come oro, rame, zinco, platino, nickel, uranio e soprattutto terre rare. A questo si aggiunge anche il 40% delle risorse mondiali di idrocarburi, ancora di fatto indisponibili allo sfruttamento, ma che in un futuro prossimo saranno sempre più accessibili, di pari passo con il riscaldamento globale.
Per il resto, per capire dove risieda la strategicità della Groenlandia basta guardare una qualsiasi cartina della zona artica dall’alto: se grazie alla posizione geografica la Russia possiede già più di un 1/3 del Mar Glaciale, gli Stati Uniti vi hanno un difficile accesso solo tramite l’Alaska. L’isola più grande del mondo è la porta privilegiata dell’Artico.
I tentativi russi di sfruttare la via commerciale Northern Sea Route, che controlla quasi interamente, così come i pesanti investimenti cinesi in tutta la regione Artica, Groenlandia compresa (circa 90 miliardi nell’ultimo decennio), facevano presagire una risposta americana che non si è lasciata attendere.
Un controllo sulla regione autonoma danese, o anche semplicemente nuove basi militari, avrebbe enormi benefici per Washington: permetterebbe di meglio definire con il Canada il controllo dell’altra via commerciale fondamentale, ovvero il passaggio a Nord-Ovest (che Ottawa considera acque interne); bilancerebbe l’attività artica dei principali rivali degli Stati Uniti, ovvero Russia e Cina; soprattutto, assicurerebbe la NATO sul fatto che anche una possibile Groenlandia indipendente resterebbe nell’alleanza atlantica.
Ci sono tutte queste ragioni, nelle parole di Trump, e anche se prova a smentirlo, nella visita di Stato in Danimarca del prossimo settembre certamente si parlerà anche di questo. Con sullo sfondo “la fake news del climate change“. Ciò che succede nell’Artico, come sempre, non rimane nell’Artico.
Antonio Acernese