Ma tu lo sai bene, dal momento che hai dovuto convivere con lo scetticismo e la ritrosia. Sono più di trent’anni che sconti la pena per quell’azzardo di coerenza che alle pendici del Vesuvio troppo spesso significa determinare la propria condanna.
Caro Giancarlo, anzitutto buon compleanno. Lo so, contare gli anni è una semplice convenzione, specie per chi ha l’ardire di coltivare per tutta la vita un ideale senza tempo, ma da queste parti siamo fatti così e allora a breve inizieranno le celebrazioni per il trentennale della tua scomparsa.
Napoli non ti ha mai dimenticato – e come potrebbe? – ma è soprattutto in questi frangenti che si sente la tua mancanza. Che ci vorrebbero meno commemorazioni e più impegno, meno chiacchiere e più sacrifici. Non è semplice; ma pure questo lo sai, sei stato tu ad insegnarlo a noi.
Napoli ti ricorda doverosamente, ma ciò che più conta è che ci sia ancora qualcuno che prova a seguire il tuo esempio. Non quello di eroe, sia chiaro, perché sarebbe caricarti di una responsabilità ingrata. Eppure c’era dell’eroismo nella tua normalità, che potremmo forse definire amore, amore per la verità e per il giornalismo come sarebbe lecito attendersi da tutti gli operatori dell’informazione.
Ma tu eri abituato alla condizione di precario già dai tempi di redazione, e quindi accetterai di buon grado anche questo status precario di eroe a tempo determinato. Con tutti i personaggi usa-e-getta che ci ritroviamo, direi che possa andar bene.
Ad ogni modo, se proprio vuoi saperlo, qui tutto procede come sempre. La camorra fa il bello e il cattivo tempo, inquina il suolo e l’aria, uccide ragazzini senza scrupoli di pietà e lascia dietro sé una scia di rabbia e sconforto. Qualcuno è arrivato a dire che sia congenita nella nostra società, come se noi napoletani nascessimo col gene della camorra nel sangue e quindi fossimo abituati a ritrovarcela dappertutto.
Glielo spieghi tu o glielo spiego io che non è così? Certo, ne sei perfettamente consapevole: sei stato ammazzato per questo. Perché tu hai provato a reagire, a combattere, e l’hai fatto nel modo più onesto e gentile che potessi: svolgendo il tuo lavoro, il tuo dovere. Questo, sai, fa paura: se passasse il messaggio che sia sufficiente comportarsi da persone normali per sconfiggere la camorra… più comodo il silenzio, in tutti i sensi.
Ma io, che oggi rivolgo un pensiero a te e a quanti in nome di una causa hanno perso la vita, non ci riesco a stare zitto. Vorrei avere sufficiente voce a gridare che no, non siamo tutti camorristi, che è comodo generalizzare per fomentare i sensi di colpa, che certo sarebbe opportuno un esame di coscienza per le mancanze quotidiane, ma che è gravissimo che un rappresentante delle istituzioni, anziché spendersi in prima persona per il contrasto a questo fenomeno, liquidi la questione come un male incurabile, un cancro in attesa di divorare l’ultima cellula e uccidere l’organismo che l’ospita.
E tu, allora? E quanti s’impegnano nella lotta di ogni giorno, nelle piccole e grandi battaglie, dai procuratori ai magistrati, dalle associazioni ai giornalisti, dai volontari agli attivisti? Il napoletano è cosciente di convivere con la camorra, a molti sta pure bene, certo, ma moltissimi altri vorrebbero che fosse lo Stato a prendersi cura di loro, ad offrire una possibilità fra le molteplici seduzioni del lavoro nero, dello spaccio, della microcriminalità. E invece no, lo Stato punta il dito ed accusa, come se decenni di politiche di abbandono e discriminazione sistematica non siano state l’aggravante per cui il substrato culturale di questa città – e del Mezzogiorno intero – ha finito per contaminarsi irrimediabilmente con la logica della prevaricazione, del sopruso, della delinquenza.
Oggi si uccide per pochi spiccioli, perché in un mondo che sfrutta la fame come strumento di potere anche la vita umana perde valore. Stesso discorso per l’omertà, la corruzione, il finto perbenismo. Nessuno vuole nascondere i problemi di Napoli; in pochi però vogliono risolverli.
E tu, Gianca’? Io ne sono sicuro, dall’alto di chissà quale destino ci guardi e conservi quel sorriso speranzoso di un figlio innamorato, un padre benevolo, un fratello complice. La tua terra ti ha abbandonato, i tuoi esempi sono andati persi, la tua gente ti ha tradito, eppure tu sorridi.
Sorridi perché sai che la pazienza è la più generosa delle virtù, la più nobile delle compassioni. Sorridi perché sai che Napoli ha già versato troppe lacrime e non sarà un pianto a lavare le coscienze sporche, sorridi perché in fondo è quello che meriti: essere felice. Anche io spero un giorno di riuscirci, magari senza perdere la vita per i miei ideali, ma anche senza perdere i miei ideali per conservare la vita.
Buon compleanno, Gianca’, e grazie della pazienza.
Emanuele Tanzilli