Allo sgomento, all’indignazione, all’amarezza, alla sofferenza e all’impotenza generati da terribili avvenimenti quali femminicidi e violenza sulle donne che attraversano con le loro esistenze la Capitale fanno tristemente seguito le peggiori modalità di sciacallaggio mediatico, le soluzioni securitarie della sindaca Raggi e i proclami continui della giunta pentastellata sull’adozione di immediati provvedimenti contro il “degrado” territoriale delle periferie.
Quello di Desirée Mariottini è solo l’ultimo caso di una serie di femminicidi frutto della banalità di quel male normalizzato e istituzionalizzato riconosciuto come violenza sulle donne. A Roma, come del resto in tutta Italia, la violenza sulle donne è un dato in costante crescita a cui le istituzioni, giunta Raggi compresa, sembrano aver trovato soluzioni formali e giuridiche adeguate ma di fatto irrealizzate all’interno dei territori.
Contrastare la violenza sulle donne
Se da un lato per contrastare la violenza di genere risulta fondamentale la presenza di servizi appaltati dal comune ad associazioni del terziario quali centri antiviolenza e case rifugio alle quali possano accedere le donne in difficoltà, dall’altro enormi passi dovrebbero essere compiuti nella formazione di personale altamente qualificato all’accoglienza di donne vittime di violenza. L’avvocatessa Mone, dell’Associazione Differenza Donna operante in capitale con vari centri antiviolenza dal 2000, dichiara:
«Abbiamo in mano tutti gli strumenti per fronteggiare la violenza di genere. Quello che noi dobbiamo pretendere è la specializzazione degli operatori che entrano in contatto con le vittime di violenza. Accade troppo spesso invece che vengono sottovalutati i rischi che corrono le donne, anche se questi rischi vengono portati a conoscenza delle autorità competenti. Noi non possiamo più accettare che il destino di una donna vittima di violenza dipenda dalle persone che incontra sul suo cammino».
Per non cadere nella trama dei vincoli paternalistici che riducono la donna a soggetto subalterno e vittimizzato, è necessario concentrarsi non solo sulla formazione di personale adeguato ma anche sulla riqualificazione e sulla creazione di spazi femministi inclusivi e capillarmente diffusi sul territorio.
Le iniziative della sindaca Raggi
Da questo punto di vista a discapito della pianificata apertura di due centri antiviolenza nel municipio I e III, uniti alla promessa della sindaca e dell’assessora alle politiche sociali Baldassarre di aprine uno per ogni municipio per contrastare la violenza sulle donne, la tattica Raggi sta evidentemente fallendo.
Gabriella Camieri Moscatelli, presidente del Telefono Rosa, durante un’intervista rilasciata al Tempo si chiedeva:
«Com’è possibile che si venga stuprate in mezzo alla strada, nel centro della Capitale?
La violenza sulle donne l’ha sempre avocata a sé la segreteria del sindaco, di qualsiasi schieramento fosse. La prima cosa che ha fatto la Raggi, una volta indossato il tricolore, è stato buttarla fuori e metterla in mano alla comunicazione, che oggi è il nostro unico interlocutore».
Dalle sue parole emerge quindi che prima dell’insediarsi della giunta Raggi ci sarebbe stato un ufficio a parte nel gabinetto del sindaco fatto di persone preparate e sensibili sulla tematica che si occupavano di stilare dei protocolli con le varie entità presenti sul territorio, pensare a piani di sicurezza, creare nuove case di accoglienza, centri di ascolto, intervenire sulle scuole.
Oggi non esisterebbe una figura cui fare riferimento in caso di tematiche legate alla violenza sulle donne, tanto che l’unico aiuto possibile rimane quello dalle forze dell’ordine, spesso impreparate alla gestione di denunce di violenza.
Non giocherebbero a favore della sindaca Raggi nemmeno i feroci attacchi istituzionali da parte della giunta pentastellata ai luoghi essenziali di autonomia, solidarietà e cultura delle donne della Capitale. La Casa Internazionale delle Donne, la Casa delle donne Lucha y Siesta, il Centrodonna L.I.S.A., il Centro donne D.A.L.I.A, lo spazio delle Cagne Sciolte, solo per citare alcuni esempi, vengono minacciati continuamente da procedimenti di chiusura e sgombero secondo un’ottica neoliberale che non fa altro che monetizzare e speculare sulla pelle delle donne.
Secondo l’europarlamentare Eleonora Forenza:
«Il governo italiano e alcuni enti locali come il comune di Roma provano a chiudere gli spazi delle donne. Non lo permetteremo perché si tratta di una violazione dei principi dell’Unione europea».
Certo non mancano all’interno della giunta capitolina e dei suoi sostenitori i crociati della legalità, novelli Scrooge non redenti che mettono al primo posto debiti da risanare e forzieri da rimpinguare. Quello tuttavia che viene spontaneo chiedersi è se la garanzia dei diritti fondamentali e inalienabili di ogni donna non possa legarsi a soluzioni di risanamento del bilancio per lo meno eque. La giunta Raggi a tal proposito sembra fornirci risposte chiare, basti pensare alle ultime vicissitudini tra il Comune e la Casa Internazionale delle donne.
In questo senso la dilagante violenza sulle donne che si sta consumando nella Capitale non può essere considerata solo come un fenomeno attribuibile alla singola mostruosità di soggetti terzi, ma andrebbe analizzata come risultante di una politica e di un’amministrazione comunale latitante e con interessi ben distinti dalla riqualificazione dei quartieri e degli spazi socio-culturali che li contraddistinguono.
Sembra essere maggiormente conveniente non dedicarsi ai quartieri più difficili, che spesso finiscono in mano alla criminalità organizzata o sotto processi di gentrificazione che di fatto li snaturano, anziché tutelarne gli spazi storici, valorizzarne le piazze, riqualificarne le strade e i parchi. Sempre di più il “degrado” si combatte a suon di cementificazioni e militarizzazione delle strade.
Prendiamo come caso emblematico le dichiarazioni della sindaca Raggi in seguito allo stupro e all’assassinio di Desirée Mariottini:
«Violenze come quella che ha subito Desirée sono inaccettabili […] Nel quartiere San Lorenzo vieteremo il consumo di alcolici in strada dopo le 21, limiteremo anche la vendita da parte dei negozietti, intensificheremo ancora di più i controlli con l’aiuto della polizia».
Ecco la mirabolante soluzione proposta dal comune: l’ennesima ordinanza anti-movida. Come se non bastasse, un’ordinanza intrisa di becero paternalismo e maschilismo, rintracciabile nella correlazione consequenziale tra lo stato di ebrezza e la violenza maschile perpetuabile ai suoi danni. Nel 2018 sembra ancora essere necessario ribadire come la violenza sulle donne la fanno gli uomini, non l’alcool, non le gonne, non la disattenzione.
Se l’unica soluzione al degrado urbano e cittadino proposta dal comune risulta essere quindi di chiaro stampo securitario e militarista, sarebbe il caso di vagliare anche altre alternative. Forse non servono più forze dell’ordine nelle strade e nemmeno più telecamere a circuito chiuso; forse quello di cui Roma e le donne che l’attraversano necessitano è la partecipazione, la costruzione di luoghi e spazi femministi dove sia possibile crescere, confrontarsi e autodeterminarsi, l’apertura di fondi per la cultura e i servizi sociali.
Sara Bortolati
Brava!