Quando l’emittente STARZ annunciò la produzione di American Gods, serie tv tratta dal pluripremiato romanzo di Neil Gaiman, in molti furono a gioire e stappare bottiglie di spumante a buon mercato, compreso il sottoscritto. Scelta saggia?
Le perplessità sul progetto seriale c’erano fin dall’inizio: il romanzo, preso integralmente, restava un prodotto poco incline alla transmediazione in un contenitore come quello televisivo: vuoi per il suo stile immaginativo, vuoi per la sua diegesi poco lineare, vuoi per lo storytelling fatto di attese e volute astrusità.
Il romanzo, infatti, è unico, non ci sono seguiti né mai ce ne saranno: ha una fine assolutamente conclusiva e l’azione è disseminata con parsimonia in tutto il corso della trama. Senza contare che le storie secondarie parlano di vita ordinaria che si soffermano, perlopiù, sull’introspezione e sui pensieri del protagonista lasciando poco spazio a sussulti nel corso della lettura. Cosa che può intrigare e rilassare il lettore placido, alle prese con l’odore della vecchia carta stampata, ma che – forse – può tediare lo spettatore audio-visivo predisposto più all’azione e al ritmo serrato quando si interfaccia ad un incipit di guerra fra nuove e vecchie divinità.
D’altro canto, American Gods rimane un’opera lasciva, altamente magnetica per la profondità dei temi trattati: il sacro e il profano; la necessità umana di credenze; il disorientamento; la narcosi collettiva della nostra epoca. Così come resta assolutamente affascinante per il pantheon dei personaggi messi a disposizione, questi, ammantanti di character definiti e altamente istrionici: Odino, Anubi, vari personaggi del folklore anglosassone, i nuovi dei e chi più ne ha più ne metta.
Sulla scorta di queste premesse possiamo giungere ad una considerazione: se il telefilm si fosse limitato ad attingere al mosaico mitologico di American Gods, se solo avesse utilizzato la trama del libro come pretesto e filo conduttore dell’intera storia (così da creare tante piccole storie ex-novo e collaterali per ogni stagione), forse, a quest’ora, la si apprezzerebbe maggiormente.
Sì, perché oggi ci troviamo di fronte ad una trasposizione pedissequa e poco originale del prodotto. Cosa che feliciterà i puristi dell’autore, ma che non galvanizza chi si approccia per la prima volta all’opera. Il problema è che la serie dichiara apertamente di rivolgersi ad un grande pubblico (per codici estetici soprattutto) ma lo fa con uno stile narrativo che solo il pubblico di nicchia potrà apprezzare: tempi compassati da western, onanismi artistici, primissimi piani, dialoghi brillanti ma allusivi. Insomma, per molti, è come guardare un auto truccata, rutilante, ma che per qualche assurda ragione non riesce a fare breccia nel proprio cuore.
Il romanzo, come la serie, procedono, infatti, sull’onda dellla bonaccia, svelando – con gradualità – i personaggi principali che trainano la storia con un linguaggio e uno stile criptico e spesso sottinteso. Cosa che sicuramente vellica l’interesse dei più curiosi e pervicaci ma, al contempo, fiacca i meno appassionati per i troppi punti interrogativi sparsi una puntata dopo l’altra e conferendo, in chi osserva, la diuturna sensazione di non capire cosa diavolo stia succedendo, chi sia quel tizio e chi sia quell’altro, perché capiti quell’evento e perché quel personaggio si comporti in quel modo.
Si procede in maniera trasognata, a tentoni, cosa che – probabilmente – ha fatto le fortune del libro ma che, innegabilmente, non risulta particolarmente efficace per le meccaniche di una serie tv.
Ma non è tutto nero, anzi. La serie è degna di esaltazione per la sua estetica visionaria: una fotografia colorata e fortemente contrastata che confluisce in fantasmagorie oniriche in salsa spirituale. Più di una volta, ne siamo sicuri, rimarrete a bocca aperta per i fotogrammi suggestivi e magici che la serie vi proporrà.
I protagonisti, inoltre, sembrano quanto mai in parte, come il sardonico e sornione Ian McShane (Odino/Mr. Wednesday), che fa da spalla al vero protagonista, Shadow Moon (Ricky Witthle di The 100), che con una recitazione ordinaria e attonita incarna perfettamente il personaggio del romanzo. Ah e poi c’è Peter Stormare, l’attore di Czernobog, che pur centellinando il suo minutaggio ha fornito una grande e sudicia performance attoriale.
Altro colpo da maestro del creatore della serie, che risponde al nome di Bryan Fuller (Hannibal vi ricorda qualcosa?), è stato quello di arricchire questo condensato di immagini mistiche a momenti di stampo surreale, spesso grottesco, che danno una decisa identità al prodotto.
Insomma, la prima stagione di American Gods risulta una meravigliosa e luccicante crisalide da cui ci si aspetta si dischiuda qualcosa di altrettanto stupefacente. Ciò non sembra essere accaduto con la prima stagione ma che, dato il rinnovo ufficiale per una seconda, non è detto che non accada nel proseguio.
Enrico Ciccarelli