Verba volant scripta manent

La memoria collettiva è negli scritti, tra le righe, in quelle parole che raccontano la storia – di un popolo, di una nazione, di un continente, di una lingua. E il 2017 si è congedato mostrandosi irrispettoso proprio verso una porzione di storia, quella che chiama in causa la lingua italiana.

Ma chi l’ha incastrata, la lingua italiana?

Iniziamo dall’inizio: i fatti. Il 27 dicembre, il MIUR pubblica il “Bando Prin 2017” – stiamo parlando dei Progetti di ricerca di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) – e all’articolo 4 decreta che la domanda debba essere redatta in lingua inglese:

«2. La domanda è redatta in lingua inglese; a scelta del proponente, può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana. La domanda prevede due componenti distinte:
• il modulo amministrativo (parte A)
• la proposta di ricerca (parte B )»

Questa scelta ha fatto storcere il naso a qualcuno e non ha trovato consensi presso l’Accademia della Crusca, che titola il tema del mese di gennaio “Il MIUR dà un calcio all’italiano” e apre il dibattito con un eloquente intervento del professor Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia.

Il ministro Fedeli, mossa dalle accuse all’esclusione della lingua italiana, ha difeso la scelta ministeriale definendola funzionale in questa fattispecie, perché l’inglese rende agevole la comprensione delle domande pervenute anche a valutatori esteri – «L’inglese è, dunque, necessario. È necessario, insisto, in questo specifico caso».

La difesa a oltranza del bando chiama in causa i diversi progetti avviati dal Ministero a tutela della lingua italiana e in favore della sua diffusione, in nome dei quali la Fedeli afferma di respingere «qualunque accusa di deminutio dell’italiano». A fine lettura, si ha la sensazione di dovere uno chapeau! al nostro Ministro dell’Istruzione.

Chapeau! e adieu alla lingua italiana

Qui finiscono i fatti e qui dovrebbe finire anche il dibattito, se non fosse che una presa di posizione simile non può cadere nel dimenticatoio – non questa volta, non nell’era dell’oblio. Sarebbe difatti fuorviante pensare che gli accademici offesi siano solo dei pazzi o degli intellettuali fuori dal mondo.

La lingua italiana – per ruolo, prestigio, biografia – non solo non merita di essere un’alternativa, ma non le spetta neanche. Dovrebbe anzi essere sempre, e in ogni circostanza, la conditio sine qua non. E con ciò non si intende sminuire lo status della lingua inglese, bensì si riconosce in essa una lingua che qui, in Italia, è accessoria e come tale deve figurare – non in concorrenza con l’italiano, ma in sinergia con esso.

Non possiamo smettere di comunicare in italiano e soprattutto non è possibile renderlo opzionabile a qualsiasi livello burocratico, perché è proprio tra le scartoffie più noiose che una lingua si consolida e rinvigorisce. Senza il benestare tacito dell’uso istituzionale e popolare, qualsiasi lingua è destinata a perire nel lungo periodo e un italiano reputato dall’Italia stessa poco funzionale ha scarse possibilità di sopravvivenza.

La lingua italiana, o più correttamente la sua storia, è una fetta di memoria e identità collettiva, è quel nazionalismo che non spaventa, perché non è ideologico né dogmatico, ma è serbatoio di un passato antico e recente che, volente o nolente, ci determina e che custodisce il patrimonio artistico e scientifico che ha segnato progressi, errori e vittorie.

Inoltre, la lingua italiana è la lingua materna della gran parte degli attuali cittadini italiani, il che significa che è il mezzo attraverso cui il pensiero si tramuta in linguaggio e diviene idea comprensibile da se stessi e spiegabile all’esterno – in parole povere: in italiano pensiamo, sogniamo e creiamo, e di conseguenza in italiano diamo il massimo quando siamo chiamati a comunicare.

L’errore del MIUR: tanto di cappello!, addio

Escludere l’italiano o meglio contemplarlo solo quale alternativa a titolo preferenziale in un bando ministeriale è un atto che delegittima la lingua italiana: ne delegittima, sia pure in uno «specifico caso», l’utilità, la funzionalità e soprattutto lo status di lingua ufficiale della Repubblica.

«[…] il plurilinguismo della società contemporanea, l’uso d’una specifica lingua in determinati ambiti del sapere umano, la diffusione a livello globale d’una o più lingue sono tutti fenomeni che, ormai penetrati nella vita dell’ordinamento costituzionale, affiancano la lingua nazionale nei più diversi campi. Tali fenomeni, tuttavia, non debbono costringere quest’ultima in una posizione di marginalità […]»

Corte Costituzionale, sentenza 42/2017

Una lingua delegittimata oggi può esserlo anche domani e dopodomani e ancora, a oltranza. E quale credibilità può avere un patrimonio culturale nonché canale di comunicazione messo al bando dai suoi stessi “figli”? Nessuna, proprio nessuna.

Quest’epoca 2.0 è un’epoca di grande oblio, dove l’impellenza data da fattori come immediatezza e novità scaccia la riflessività e la memoria, e con esse l’individualità stessa – di un singolo o di una comunità –, il che produce ingranaggi tutti uguali con compiti tutti uguali e prospettive tutte uguali. In contesto simile, l’atto di preservare la lingua in ogni circostanza è indispensabile e mai accessorio.

Dunque è del tutto inutile girarci intorno: il ministro Fedeli ha sbagliato. Dinanzi all’obiezione sollevata dagli accademici, avrebbe dovuto ammettere l’errore e agire di conseguenza anziché difenderlo a oltranza. In questo caso, infatti, non ci sono né se ma, perché siamo in presenza di un’evidente inadeguatezza del Ministero dell’Istruzione, che calpesta la cultura umanistica con atti di aperta indifferenza nei riguardi dello status della lingua italiana quale «lingua prima» di questa nazione.

Il fatto che, probabilmente, il MIUR davvero non concepisca le implicazioni della propria scelta dà il sinistro sentore che la vitalità e la persistenza della nostra lingua, rielaborando un celeberrimo titolo di Carlo Levi, si siano sul serio fermate al Novecento.

Rosa Ciglio

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