La rubrica Lettere in soffitta questa settimana torna con una storia che mescola narrativa e fotografia, in un racconto di Paul Auster.
La fotografia, fra tutte le forme d’arte istituzionale, è stata quella che più di tutte ha dovuto lottare per essere riconosciuta come tale. La capacità automatica della macchina di catturare la realtà in modo perfetto ha fatto storcere il naso per decenni a coloro che sostenvano che il processo creativo fosse qualcosa di ben lontano da un semplice click. Nell’epoca della riproducibilità tecnica, sostiene Walter Benjamin, l’aura artigiana del maestro viene sostituita dal lavoro meccanico di uno strumento che copia e incolla la realtà per un numero potenzialmente infinito di volte.
Possibile dunque che una fotografia, seppur di un nome famoso, ed un Caravaggio, che ha richiesto anni di pennellate, possano entrambi essere classificati sotto la stessa impegnativa etichetta di “arte”?
Tra i difensori della fotografia si annovera l’allora curatore del Dipartimento di Fotografia del MoMA, John Szarkowski, sostenitore dell’idea che la foto altro non sia che l’interpretazione individuale della realtà dell’artista, il cui ruolo è centrale nella creazione di un’estetica dell’immagine lontana dall’essere solo fredda documentazione.
Una lotta per la legittimazione, quindi: una sorta di competizione con le arti altre. Viene spontaneo pensare alla pittura, forse alla scultura. Eppure Susan Sontag, nel saggio “On Photogaphy”, riuscì a fare un paragone tra fotografia e letteratura. Mentre scrivere, presupponendo un’interpretazione, concluse che l’atto fotografico consiste nel creare una miniatura della realtà che chiunque può realizzare.
Eppure non sono mancate le occasioni in cui fotografia e letteratura hanno saputo dimostrare di essere un binomio di successo. Molte volte l’immagine supporta il testo: come supporto visivo in articoli o pubblicazioni scientifiche; qualche volta anche in modo più stretto, laddove l’immagine diventa parte integrante della storia e la rende veritiera e pulsante: in qualche modo le dà vita. È il caso di Istanbul di Orhan Pamuk, un libro a metà fra autobiografia e guida della città, che nella versione integrale è coronato da stupende fotografie in bianco e nero che si intrecciano sinergicamente con la parola stampata: due linguaggi che toccano corde diverse dell’animo umano e le fanno suonare insieme. È il potere della sinfonia – come quando per esprimere un concetto rubiamo parole ad altre lingue perché lo sanno esprimere meglio (chapeau!).
A proposito di rubare: proprio da un piccolo furto intellettuale naque, nel 1991, una bellissima storia di Natale.
Paul Auster, scrittore americano tra i più significativi del secolo scorso, racconta come, nel Dicembre 1990, gli fosse stato commissionato dal New York Times di scrivere una storia per l’edizione natalizia del giornale. Brancolante nel buio della notte senza idee, Auster si confida con il tabaccaio di fiducia (nel racconto con lo pseudonimo di Auggie Wren), un fotografo dilettante. Auggie mostra allo scrittore dodici album delle sue fotografie, tutte ritraenti lo stesso angolo di Brooklin, immortalato ogni giorno per dodici anni. Paul le sfoglia, velocemente, non si sofferma su quel pacco di foto che sembrano tutte uguali: la ripetizione meccanica e ridondante di un soggetto inutile.
«Vai troppo svelto» dice Auggie, «non ci arriverai mai se non rallenti». E solo rallentando, assaporando ogni scatto, sfiorando ogni foto, Paul si rende conto che non é solo l’angolo di Brooklin, non è solo un pezzo di strada, ma è la dedizione e la consequenzialità di quelle immagini colorate, rubate dall’occhio ladro del tabaccaio, a renderle qualcosa di più.
«…le stesse persone nello stesso punto ogni mattina, mentre vivono un istante delle loro vite nel campo della macchina fotografica di Auggie».
Non è questo, poi, che diceva Szarkowski? Non è questa la “visione privata” del fotografo?
Ma la storia di Auster continua: l’abbiamo lasciato senza uno straccio di idea per la storia di Natale.
L’amico tabaccaio gli propone uno scambio: una storia natalizia in cambio di un pranzo. Paul accetta. E Auggie racconta: è la storia di come si era procurato, anni prima, la sua macchina fotografica.
Aveva infatti trovato a terra il portafoglio di un giovanissimo taccheggiatore che non era riuscito ad acciuffare, inseguendolo, dopo averlo colto con le mani nel
sacco in un negozio di riviste porno. Passato del tempo, il giorno di Natale egli decise di fare un atto di bontà e riportare l’oggetto al piccolo ladruncolo.
Recatosi dunque all’indirizzo trovato sui documenti, arriva alla casa di una vecchia sola e cieca, che – forse appositamente – confonde il tabaccaio proprio con il giovane nipote che non vede da tempo. Auggie si impietosisce e, fingendo di essere il ragazzo, passa la giornata di festa con la signora. Quando lei si addormenta, ubriaca di vino e felicità per una solitudine scomparsa per un attimo, lui trova in bagno una pila di macchine fotografiche, ne ruba una e scappa.
Con questa, comincerà la sua attività di fotografo di strada.
Una storia di furti, quella di Auster: il mariuolo ruba la rivista porno, Auggie ruba la macchina fotografica e Paul Auster ruba a lui l’intera storia, che diventerà un bellissimo racconto dal titolo “Il racconto di Natale di Auggie Wren”.
Se fotografare è prenderne la realtà e farne copia-incolla, possiamo dire che Paul Auster ha fotografato la storia di un tabaccaio qualunque di Brooklyn.
Eppure, tuffandosi tra le righe di quel delicatissimo racconto di un Natale urbano, ci si rende conto che non è un semplice stampo.
Ci voleva l’occhio di un fotografo-scrittore, per scegliere quella storia tra tutte quelle che passano ogni giorno per le vie di New York. Ci voleva l’occhio di Paul Auster, per scriverla così, con quell’inquadratura, con quel taglio, con i personaggi messi in quella posizione, con quelle sfumature.
Auster ha fotografato scrivendo, insegnandoci molto sugli spazi di intersezione tra le due arti.
Ilaria Cozzolino