Guardo le immagini alla televisione ed il bianco è un nervo pulsante, una tortura ridondante da impazzire. Le macchioline scure di colore si agitano, svuotano ogni energia nell’arginare l’impeto della bufera, nel misurarsi e sfidare l’avversità della sorte senza timore.
A un certo punto un volto emerge dalla pozza di buio scavata nella neve, che a vederla dall’alto si direbbe l’imbocco dell’inferno: e tale dev’essere sembrato, agli ospiti intrappolati nelle macerie dell’Hotel Gran Sasso di Rigopiano, un inferno di tumulti e di macerie, di gelido sconforto e agghiacciante rassegnazione.
I soccorritori esultano, qualcuno applaude, qualcuno si commuove e con un filo di voce sussurra benedizioni e ringraziamenti. Presto la notte calerà di nuovo sul mondo il suo velluto nero e le speranze dovranno farsi luce a forza di preghiere; fino al mattino, fino alla salvezza, fino alla redenzione.
Non riesco a togliermele dalla testa. Scene che valicano senza pudore il confine sottile della realtà, narrazioni che sembrano tratte da un film di Hollywood, oppure da un romanzo di Stephen King. Una transumanza di orrori che dallo scorso agosto si perpetua in uno stillicidio di scosse e tremori, crolli di case e crolli emotivi. Non fosse tutto così vero, sarebbe tutto così assurdo.
L’Italia è un’aquila dalle ali spezzate, lo sguardo nobile e sofferente che si trascina il dolore negli artigli, le piume dimesse sul terreno lacerato. Vite disperse o tirate nei polmoni nell’apnea dell’attesa. Secoli di storia sgretolati colpo dopo colpo, affastellati tutti insieme fra i calcinacci e le crepe, sepolti sotto metri di polvere e di neve come un ricordo da mettere a tacere per sempre.
Si potrebbe saggiamente pensare che tutto sia perduto, che non ci sia altra prospettiva che la rassegnazione. E invece.
E invece accade che nella tragedia più grande risorga la purezza della dignità, accade che nella sorte più avversa si ridesti l’eroismo della genuinità. Continuo a guardare le immagini e vedo un popolo che si prodiga, che si sbraccia, che lotta contro quel bianco per una volta lugubre e nefasto. Vedo un esercito di cuori battere all’unisono, un plotone d’anime soffiare vita con quella naturale spontaneità che dovrebbe appartenerci sempre.
I contorni del reale tornano allora più nitidi. Io sono qui, al caldo, mentre batto sulla tastiera le righe di una storia che non oso conoscere. A centinaia di chilometri, invece, si consuma una verità ben più ampia, che intreccia le sue storie con quelle di migliaia di altre storie: i migranti accorsi a spalare e i soliti sciacalli (di cui non faccio il nome per decenza) in cerca di consenso elettorale sulle vittime ancora senza volto; e poi ancora le vignette, e le solite polemiche dei moralisti per principio senza altro principio che l’ipocrisia.
Ma adesso tutto questo è solo un margine sul foglio. Passeranno i programmi alla tv e passerà l’inverno, torneremo a parlar male dei migranti e a votare gli sciacalli e sotto sotto saremo contenti di dimenticare lo strazio e la compassione provati in queste lunghe settimane di agonia.
I gesti di eroismo torneranno un atto dovuto nell’emergenza. Il sospetto ci alimenterà l’odio reciproco e il Centro Italia tornerà un mero divisorio tra terroni e polentoni. Le macerie, quelle invece resteranno a lungo a tormentarci i sogni, a domandarci senza pietà che cosa si potesse fare per evitarlo, o almeno per limitarne i danni. E come sempre avremo paura di formulare una risposta tremendamente simile a “niente”. Perché sarebbe, quella sì, troppo assurda per essere vera.
Le immagini ora si spengono e sulle città intorno cala un silenzio senza echi. Ma so che loro sono ancora lì, oltre lo schermo, oltre i pensieri che non riesco a formulare, sono lì a combattere mettendo da parte la rabbia e le paure. Così da qualche parte in fondo al cuore si fa largo in me la ragionevole certezza che quell’aquila dalle ali rotte un giorno tornerà a volare. E il suo grido sarà più chiaro di ogni sofferenza.
Emanuele Tanzilli
@EmaTanzilli
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