“Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà mai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere.” 

Questo discorso, presente nel primo romanzo di Italo Svevo, Una vita, è la chiave per comprendere il capolavoro dello scrittore triestino, “La coscienza di Zeno”, e la sua intera produzione narrativa: tre romanzi in cui l’inetto è il protagonista fisso.

Chi è l’inetto? L’inetto è il protagonista e contemporaneamente l’antagonista di se stesso, continuamente in contrasto col mondo che lo circonda, incapace di vivere ma non abbastanza coraggioso da morire, tra lavori e amori destinati a fallire. L’inettitudine è un tema cardine della letteratura europea del ‘900: non solo Zeno Cosini e Emilio Brentani, protagonisti rispettivamente della Coscienza di Zeno e di Senilità (secondo romanzo di Svevo), ma anche il Mattia Pascal di Pirandello, L’uomo senza qualità di Musil, Lo straniero di Camus.

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Le caratteristiche peculiari di questo sinistro personaggio sono perfettamente descritte ne “La coscienza di Zeno”: in primis, il rapporto conflittuale con la figura paterna che ritroviamo anche in Pirandello e in Kafka (Lettera al padre). Nella Coscienza c’è un intero capitolo dedicato esclusivamente alla morte del padre e alla famosa scena dello “schiaffo”, un punto-chiave che ci rivela i primi sintomi di inadeguatezza alla vita:

Piangevo perché perdevo il padre per cui ero sempre vissuto. Non importava che gli avessi tenuto poca compagnia. Ed ora invece egli non poteva più aspettarmi e se ne andava convinto della mia insanabile debolezza. […] La morte di mio padre fu una vera, grande catastrofe. A trentanni ero un uomo finito. M’accorsi per la prima volta che la parte più importante e decisiva della mia vita giaceva dietro di me, irrimediabilmente.

Un altro tema fondamentale del libro è il vizio del fumo:

«Giacché mi fa male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per l’ultima volta». Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più. Sul frontespizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione: «Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studi di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!». Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.

Due capitoli, poi, sono incentrati sul rapporto dell’inetto con le donne: la prima donna che cattura l’attenzione del nostro protagonista è Ada, donna gelida e altera, dai capelli neri e ricci e di una bellezza folgorante. È la primogenita del signor Malfenti, che ha quattro figlie: Ada, Augusta, Alberta e Anna.

Partii  alla conquista di Ada e continuai sempre nello sforzo di farla ridere di me e alle spalle mie dimenticando ch’io l’avevo prescelta per la sua serietà. Io sono un po’ bizzarro, ma a lei dovetti apparire veramente squilibrato. […] Il mio totale insuccesso si manifestò proprio nel momento in cui giudicavo di dover finalmente parlar chiaro. […] Ma è decisivo il modo con cui si avvicina per la prima volta una donna.

Per cui, Zeno, deve desistere dal conquistare la bella Ada e ripiegare sulla secondogenita, Augusta, descritta come una donna fortemente strabica, “con dei capelli non molto abbondanti, biondi, ma di un colore privo di luce e la figura intera un po’ grossa per quell’età. Per la brutta fanciulla che m’amava, avevo tutto il disdegno che non ammettevo avesse per me la sua bella sorella, che io amavo.” La proposta che Zeno fa ad Augusta è veramente rude, tant’è che lei teme uno scherzo e gli dice che lui ama sua sorella Ada:

“Stavo per dirle che non potevo rassegnarmi di divenire un estraneo per Ada e che perciò mi contentavo di divenirle cognato. Sarebbe stato un eccesso, ed Augusta avrebbe di nuovo potuto credere che volessi dileggiarla. Perciò dissi soltanto: io non so più rassegnarmi di restar solo.

Questo è il romanzo in cui, più di tutti, viene fuori “l’inettitudine” cioè un’attitudine alla debolezza, alla mancanza di spirito e di personalità, una vera e propria malattia che si inserisce nel contesto storico di quegli anni, ma che si protrae per tutto il ventesimo secolo. Anni ricchi di novità culturali: la più importante, e direttamente connessa al romanzo, la fondazione della psicoanalisi di Sigmund Freud (Probabilmente il dottor S. che compare all’inizio del romanzo).

Il merito di Svevo per aver portato sulla scena letteraria questo tema è senza dubbio enorme anche se all’inizio i suoi romanzi non riscossero molto successo: “il silenzio della critica e l’indifferenza del pubblico scossero profondamente lo scrittore”, scrive Mario Lunetta, “cominciava il suo cruccio di grande incompreso, ma sempre controllato tanto da ripetere che bisogna scrivere ma pubblicare non occorre”. La scoperta della sua grandezza avviene grazie a James Joyce, estimatore di Una vita e Senilità, che indica la Coscienza a due scrittori francesi i quali ne consacrano la fama nel loro paese. Pochi mesi dopo, su una rivista italiana, esce un articolo “Omaggio a Italo Svevo” di un Eugenio Montale ventinovenne. Finalmente la fama tanto attesa raggiunge lo scrittore di Trieste che nemmeno fa in tempo a godersela e nel 1828, appena 5 anni dopo la pubblicazione di Zeno, muore in un incidente d’auto.

Maria Pisani

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