Il caso della nave di Proactive Open Arms, ONG spagnola, che è stata posta sotto sequestro sabato 17 marzo, è solo uno dei tanti casi di ONG cui è stato impedito, con le buone o con le cattive, di fare il proprio lavoro negli ultimi mesi: soccorrere persone in mare e portarle al sicuro. Cosa che da alcuni mesi a questa parte si è trasformata in un reato.
Già la scorsa estate Medici senza frontiere, Save the children e Sea Eye erano state costrette a ritirarsi perché minacciate dalla Guardia costiera libica. Anche allora, nell’agosto 2017, Proactive Open Arms aveva subito la stessa sorte, senza però poi ritirarsi completamente dal campo. Questa volta, però, vi è stata costretta: quando è tornata a Pozzallo con 218 migranti a bordo, è stata posta sotto sequestro dalla procura di Catania e accusata del reato di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Le colpe di Proactive Open Arms
La principale colpa di Proactive Open Arms, soccorrendo i migranti al largo delle coste della Libia e portandoli poi in Italia, sarebbe nel non aver consegnato – una volta salvati dal mare – i migranti alla Guardia costiera libica.
La domanda sorge spontanea: perché un’organizzazione non governativa che soccorre gente che fugge dovrebbe riportare quelle persone proprio dai paesi da cui sono scappate?
Da una parte, Proactive Open Arms avrebbe violato una regola della missione europea Themis, che prevede lo sbarco di migranti nel porto del paese più vicino (Libia inclusa) e non necessariamente in Italia. Dall’altra a questa violazione si aggiunge il problema delle zone SAR (Search And Rescue) in cui è avvenuto il salvataggio, acque che sarebbero di competenza della Libia ma che di fatto non esistono, perché non sono mai state definite e discusse a livello istituzionale internazionale. La Libia, però, le reclama come proprio campo esclusivo di azione e questa volta l’Italia le ha riconosciute.
In un comunicato stampa emanato il 16 marzo, infatti, la Guardia costiera italiana ha così dichiarato: «In questa ultima occasione era evidente che l’indicazione da parte del Comando Centrale di Roma (IMRCC) della Guardia costiera italiana, che designava come autorità SAR competente la Guardia costiera libica, equivaleva a consentire che il luogo di sbarco dei migranti soccorsi in acque internazionali, a 73 miglia dalla costa, fosse un porto libico». Proactive Open Arms, quindi, avrebbe agito laddove non era di sua competenza.
Se solo avesse voluto ‘salvarsi’, Proactive Open Arms avrebbe dovuto consegnare quei 218 migranti alle guardie costiere libiche. Violando, però, il diritto internazionale.
C’è infatti una norma fondamentale che regola i soccorsi in mare, che è propria del diritto internazionale e che fa appello al principio di non respingimento. L’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati dichiara che:
«Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».
È proprio su questo principio che si basa l’operato di tante ONG e di tanti volontari impegnati nei salvataggi in mare. E sempre sulla stessa idea si basa la difesa che in molti fanno della Proactive Open Arms. In un comunicato stampa l’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) ha dichiarato che «nessun porto libico può attualmente essere considerato “luogo sicuro” ai sensi della Convenzione per la ricerca e il soccorso in mare del 1979 (SAR)», oltre al fatto che «si deve ritenere che un’area SAR libica non esista». La Libia, infatti, vive ormai da anni in una situazione di guerra e instabilità, dove non esiste un governo unitario o riconosciuto tale internazionalmente.
Criminalizzare la solidarietà
La situazione della Proactive Open Arms – e di tutte le altre che operano sul campo – si inserisce all’interno di un quadro confuso dal punto di vista legale, dove il diritto internazionale cozza con quelle che poi sono le scelte dei singoli Stati.
Ma soprattutto è significativa di un modus operandi che, da Minniti in poi, si è fatto sempre più largo in Italia: quello del securitarismo a tutti i costi, a discapito di una gestione umana dell’accoglienza e dei migranti, in mare e all’interno dei confini dello Stato.
Tutto questo porta a criminalizzare quelle azioni che non corrispondono alla via legale e più ‘sicura’, anche quando si tratta di semplici atti di solidarietà, di aiuto verso il prossimo.
«L’Unione Europea e gli Stati membri», dichiara Frances Webber, vicepresidente dell’Istitute of Race Relations «nel tentativo di controllare e fermare movimenti spontanei di rifugiati verso il continente attraverso la militarizzazione del mare e dei confini, e attraverso politiche di dissuasione all’interno dei confini, hanno finito col criminalizzare sempre più coloro che procurano assistenza umanitaria negata a livello ufficiale».
Il paradosso è tale che queste ONG possono essere accusate di essere delle associazioni a delinquere alla stregua di chi davvero sul corpo di esseri viventi fa gli affari. La solidarietà stessa può diventare un reato.
Elisabetta Elia