Ha debuttato Iron Fist. No, tranquilli, non è un nuovo marchio di ferri da stiro, ma la nuovissima serie di quel binomio ultra-vincente che è diventato Marvel-Netflix.
C’è chi asserisce che sia l’ennesimo prodottino commerciale (la deminutio è ovviamente da interpretare in tono dispregiativo) e chi, invece, si spinge ad incensarla come un serie fight-drammatica con vette autoriali.
Si sa, de gustibus.
Ma che sia una o l’altra, questa non è la sede per esprimere giudizi di valore. Ciò che interessa, qui, è esaminare l’esperimento tentato dai creatori, ovvero il trapianto di temi e filosofie orientaleggianti in un contesto mediale (per stile, atmosfere, ambientazioni) squisitamente occidentale.
Ci poniamo, quindi, su un piano interpretativo prima che rappresentativo e, a questo proposito: inutile prenderci in giro. Siamo di fronte ad un accostamento stilistico pericoloso, da trattare con il dovuto rispetto dato che si rischia di cadere nello scimmiottamento pressappochista di una cultura – quella orientale – sì affascinante, ma al contempo molto diversa dalla nostra, difficile, da cogliere nelle sue essenzialità. Di concerto, però, si tratta di un esperimento stimolante, soprattutto per gli showrunner, chiamati all’ulteriore compito di incasellare il prodotto nell’universo espanso dei Defenders (la serie corssover attesa per il 2018) così come a conferire un’identità propria al prodotto.
E sulla scorta di queste premesse, non possiamo che fare un plauso ai creatori.
Iron Fist, infatti, senza eccedere, fornisce una panoramica convincente sullo spiritualismo orientale e su tutta l’arte contemplativa che le fa da contorno. Con semplicità e immediatezza, insomma, si narrano le peripezie del giovane Danny Rand (Finn Jones) che, dopo essere sparito per quindici anni, fa ritorno a New York City. Egli tenterà di riprendere il controllo dell’azienda di famiglia e a combattere il crimine grazie alla sua maestria nel kung-fu, arte appresa grazie all’addestramento presso un ordine monastico millenario. Il giovane Danny è anche un aspirante supereroe in grado di concentrare l’energia vitale nelle sue mani. Giusto per non farci mancare nulla.
Già dalla sinossi notiamo il riferimento al Ki, l’energia da cui si originano tutte le funzioni fisiche e psicologiche del corpo umano. Nozione fondamentale della medicina tradizionale cinese nonché tema pervasivo nella letteratura pop orientale (Dragon Ball o Hokuto no Ken vi dicono qualcosa?) e riproposta – con poca originalità a dire il vero – anche in questa serie.
Non solo. I protagonisti, hanno un retroterra fatto di addestramenti fisico-spirituali e condannati – andando avanti con la diegesi dal racconto – a seguire pedissequamente mantra o profezie auto-adempienti, tutti cliché e topos che, sovente, si propongono nell’antica tradizione shaolin. Senza trascendere tutte le repulsioni e le crisi che queste ultime possono creare nell’individuo quando si è condannati, normativamente, a seguire un certo destino. Per la serie “vogliamo il libero arbitrio, orientali retrogradi”.
È onnipresente, inoltre, anche uno dei precetti dell’antica filosofia cinese: lo yin e lo yang, il bene e il male, la luce e l’oscurità. E proprio su tale tema, il pregio di questa serie – pur rivolgendosi ad un pubblico “giovane” e senza pretese – è l’onesta. Cioè quello di fornire personaggi sfaccettati, non definiti. Insomma, non ci sono semplicemente dei buoni o dei cattivi, ma delle personalità grigie che fluttuano tra bene e male, tra luce e ombre, mostrando che i confini fra le due sono labili e sempre meno riconoscibili, come nella realtà. E diciamo che, da questo punto di vista, la serialità negli ultimi anni ha fatto passi da gigante e con Iron Fist approda ala sua maturazione, rappresentando questo passaggio al meglio, anche in un prodotto destinato all’intrattenimento giovanile.
Sì, forse nella descrizione della tradizione shaolin procede attraverso facili stereotipi o semplificazioni, ma insomma va bene così, non dimentichiamoci che è una serie che tratta di un supereroe (per quanto inconsueto) alle prese con le arti marziali e, quindi, destinato soprattutto all’onanismo per gli amanti dei calci rotanti e dello zheng qua.
Altro punto di forza di Iron Fist è come ci viene presentato lo scontro tra le due culture, quella del freddo pragmatismo occidentale – incarnato nei composti e luccicanti fratelli Meachum – e quella di Danny Rand, foriero di quello spiritualismo monastico orientale già citato in apertura. Quest’ultimo è in una fase di transizione, si trova spaesato nel nuovo contesto fatto di valori erosi e rapporti strumentali, ma a cui sente inspiegabilmente di appartenere in quanto facenti parte della sua cultura d’origine.
Egli è trapiantato, suo malgrado, tra queste due culture, due modi di vivere, due visioni del mondo. Confuso, come lo spettatore alle prese con questa nuova serie, che dice tutto e nulla, ma semplicemente intrattiene. Ma lo fa con stile.
Enrico Ciccarelli