Il corto “La chimera – Appunti per un film sulle Vele di Scampia”, documentario che mostra la vita degli occupanti delle Vele di Scampia, sarà proiettato il 6 settembre, in occasione della 74esima Mostra del Cinema di Venezia.

Abbiamo intervistato uno dei suoi autori, il regista Walter De Majo che aveva dichiarato di aver cercato di «scardinare alcuni forti pregiudizi su Scampia e sulle Vele (…) fortemente rinsaldati da alcuni prodotti per il cinema e la televisione, primo fra tutti Gomorra».

La vittoria del Bando Periferie consentirà l’abbattimento delle Vele di Scampia. Che cosa significa questo passo per l’immagine del quartiere?

«L’abbattimento delle Vele di Scampia si inquadra in un progetto allargato su Scampia che si chiama “Restart Scampia” e chiaramente l’abbattimento delle Vele anche simbolicamente sarà un passo in avanti per la rinascita del quartiere.

In prima battuta perché significa dare una casa dignitosa ai 350 nuclei familiari che ci abitano dentro in condizioni dove è oggettivamente inadatto vivere, crescere dei figli e quindi è un primo passo di umanità verso gli abitanti.

Il secondo motivo è che ovviamente ad oggi le Vele sono diventate anche simbolicamente un luogo di criminalità e quindi l’abbattimento di tre delle quattro vele  e la riqualifica dell’ultima, della vela celeste, per trasformarla nella sede della città metropolitana di Napoli significherà anche simbolicamente qualcosa di nuovo per un quartiere che oramai da un po’ di anni non conosce più la guerra di bande e di criminalità organizzata e che invece vede tanta vita di associazioni, comitati e tanti cittadini che si muovono per farlo rinascere.»

Potremmo dire che questo documentario si pone come un’anti-Gomorra? Ovvero un tentativo di mostrare il volto più umano e quotidiano, meno spettacolare della vita a Scampia?

«Assolutamente sì. Senza dare colpe perché ovviamente il cinema fa un altro mestiere. Però è vero che nel mondo dell’audiovisivo in generale Gomorra purtroppo ha portato la bandiera di quel filone di narrazione su Scampia. C’è stata in certa misura una speculazione sull’immagine di quel quartiere. Oramai sono tanti anni che Scampia non è più quello eppure ad oggi se vai in altre città d’Italia moltissimi non sanno che Scampia non è più un luogo di Camorra e forse questo è anche un film per ridare dignità a un quartiere e a delle persone che da tanti anni stanno provando a rilanciarlo.»  

Credi che il genere del documentario sia più adatto ad evitare di mitizzare l’illegalità?

«Io non credo. Non credo che esista un genere che riesce a fare questa operazione meglio di altri. Il documentario sicuramente si pone un dovere morale nei confronti di quello che riprende perché riprende la realtà. Certamente lo strumento del cinema anche sul documentario può avere una varia importanza, durante il montaggio si possono modificare tante cose, ma il documentario ti pone oggettivamente davanti alla realtà. La finzione ti da più spazio per immaginare e anche a volte per mitizzare. Per esempio, perché la serie Gomorra ha fatto probabilmente questo? Perché è nel linguaggio seriale l’idea che il pubblico si debba affezionare ai personaggi. Ma questo non è sempre stato così: Gomorra il film, invece, credo sia un film che riesca a non fare empatizzare il pubblico con i camorristi. Quindi non c’è un linguaggio più adatto di un altro.»

Avete incontrato difficoltà, pressioni o avete potuto lavorare liberamente? E come è stata la reazione del quartiere quando hanno saputo che volevate girare un documentario sulla gente delle Vele?

«Noi entriamo alle vele inanzitutto con il Comitato Vele di Scampia che è un comitato che è nato 36 anni fa nelle vele, che sono 36 anni che si batte per l’abbattimento delle vele. Prima con Vittorio Passeggio su cui è stato fatto anche un film che si chiama “L’uomo con il megafono” con Lorenzo Liparulo e Omero Benfenati che sono diventati anche un po’ i protagonisti del nostro film. Chiaramente no, non c’è nessuna difficoltà ad entrare in quei luoghi. Oggi, come dicevo, non sono più luoghi di spaccio e criminalità. Dall’altro lato ti dico che abbiamo trovato tutti noi un’umanità che raramente avremmo trovato anche in altre zone di Napoli. Forse proprio anche quella situazione di disagio ti mette nella condizione di dover aprirti ancora di più.

Quando verrà proiettato a Venezia il 6 settembre questo primo prodotto, questo primo cortometraggio che serve anche a creare dell’interesse intorno al film che finiremo l’anno prossimo si vedrà una scena della cena. Noi abbiamo ripreso una cena su un terrazzo delle Vele tra famiglie diverse, tradizioni diverse, un momento di socialità che racconta l’umanità che c’è lì dentro.»

Forse mi hai già risposto, ma c’è una scena di questo film che ti rende fiero di averla girata?

«Probabilmente è proprio la cena. Credo sia la scena che teoricamente racconterebbe di meno perché ci sono meno dialoghi, però è anche quella che secondo me dal punto di vista dell’immagine ti racconta molto di più su quelle persone. Chiaramente poi ci sono anche tanti pezzi politici, dato che stiamo comunque raccontando un percorso politico che sta facendo il Comune di Napoli con il Comitato Vele, però quella è forse la scena che racconta di più a chi non conosce quel luogo e forse ne ha anche un po’ paura. Invece non dovrebbe averne, perché è un luogo molto umano.»

Luca Ventura

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