Il brainch della domenica: Da Beppe Grillo a Di Maio, 5 stelle e un hacker per l’Italia
Cari lettori,
ricordate quella famosa canzone di Fiorella Mannoia? Come si cambia… per non morire…
Era il 1984, e stavolta Orwell non c’entra nulla; sono passati oltre trent’anni da allora, ma al Movimento 5 Stelle la ricordano ancora molto bene.
Ed è per questo che alla kermesse pentastellata in scena in questi giorni a Rimini, “Italia 5 Stelle”, abbiamo potuto assistere alla trasformazione – o forse maturazione – definitiva di quel movimento, nato per scardinare il sistema con i paradigmi dell’antipolitica, in quella che oggi è tra le prospettive più credibili e verosimili per raccogliere l’eredità di Renzi e Gentiloni e succedere al PD nel governo della nazione.
Sul palco riminese ci sono tutti o quasi: Beppe Grillo improvvisa uno spettacolo blues che ricorda a tutti perché abbia avuto successo in politica e non nella musica; Roberto Fico e Luigi Di Maio si incontrano, si stringono la mano, parlano per qualche minuto nel backstage. Alessandro Di Battista lascia un videomessaggio ai presenti mentre si prepara a diventare papà: «Abbiamo fatto il culo al sistema».
Ci sono Casaleggio, Toninelli, la super-sindaca Raggi; non manca nessuno. L’idillio sembra perfetto e il Movimento 5 Stelle, attraverso la luce dei riflettori mediatici e non, si mostra all’Italia come forza politica seria, coesa e pronta a incarnare il ruolo di alternativa di governo, mentre il popolo di sostenitori e attivisti, decine di migliaia, è in attesa dell’esito delle votazioni che determinerà il candidato Primo Ministro: un nome che tutti sanno già essere quello di Luigi Di Maio.
A guardarlo oggi, per il Movimento sembra trascorsa davvero un’eternità dai “vaffanculo” e dai “siete tutti zombie” di Beppe Grillo. Se le simpatie raccolte con la critica oppositrice, di pancia e anche un po’ populista, hanno saputo coagulare e conservare un consenso così ampio, va dato merito ai 5 Stelle di aver saputo reggere in modo egregio a tempeste politiche come quelle di Parma, di Genova, di Roma, senza per questo alienarsi i favori del proprio bacino elettorale – invero, con la complicità dei partiti cosiddetti “tradizionali”, che si sono dati un mucchio da fare per diventare ancora più odiosi e insopportabili all’opinione pubblica.
Eppure, a guardare bene sotto quel tappeto dai ghirigori festosi, la polvere del dubbio non manca affatto. A chi ha un po’ di buona memoria non sarà sfuggito che la rivoluzione dell’onestà e della trasparenza professata come un dogma fin dai tempi del tutti-a-casa ha perso gran parte del suo cristallino slancio emotivo, per far posto a dinamiche molto più tradizionali di gestione del potere. Come a ricordarsi, per dirla con Oscar Wilde, che bisogna stare attenti a ciò che si desidera, perché potrebbe avverarsi.
Anzitutto, la rappresentatività delle votazioni online: circa 37 mila persone decidono il candidato del Movimento 5 Stelle, una forza che si aggira tra il 25 e il 30% nelle intenzioni di voto degli italiani. Una cifra palesemente inadeguata: voglio dire, persino alle primarie del PD va a votare più gente, e alle primarie del PD non va più nessuno.
In secondo luogo, la selettività: Luigi Di Maio, poi Mario Rossi, Pinco Pallino, Utente Facebook, Gigi il meccanico di sotto casa mia e Tizio Che Passava Di Lì Per Caso. Nessuna vera concorrenza, nessuna alternativa per i votanti, un esito scontato che non toglie né aggiunge nulla alla proposta politica del M5S. Col dovuto rispetto per la figura ed il carisma di Di Maio, che ad ogni modo non manderei mai al G20 a discutere di geopolitica con Putin e Merkel, questo meccanismo perpetua la sensazione che non facciano che avallare decisioni già prese da Grillo con la più plebiscitaria delle illusioni.
In terza istanza, l’affidabilità: c’è in giro su twitter un fantomatico hacker, rogue0, che scrive a Grillo e afferma di aver violato i sistemi di sicurezza della piattaforma informatica Rousseau votando decine di volte per Di Maio. Che poi, hackerare la piattaforma per votare Di Maio è come superare gli allarmi di una banca, evitare le telecamere, scassinare il caveau e alla fine lasciare lì tutto il denaro perché “volevo solo farvi spaventare”. Nonostante le rassicurazioni di rito, ci sia consentito almeno augurarci che le decisioni di un eventuale Consiglio dei Ministri non verranno prese allo stesso modo.
Dulcis in fundo, le spaccature interne: nonostante si faccia di tutto per far trasparire l’immagine di una squadra compatta che marcia a passo spedito verso la conquista dell’Italia, è innegabile che ci sia, dietro l’unanimismo di facciata del Movimento 5 Stelle, chi non condivide la decisione di fare del candidato premier anche il “caposquadra”, ovvero il segretario. Questione squisitamente politica, che lacerava il PD fin dai tempi del segretariato Bersani e continua tuttora a rappresentare una dicotomia irrisolta nei principali partiti.
Bazzecole, quisquilie, si potrà dire. Più probabilmente, segnali che per il Movimento 5 Stelle è arrivato davvero il momento di decidere cosa fare da grande, se continuare ad essere il ragazzo scapestrato della gioventù o mettere la testa a posto ed assumersi delle responsabilità. In entrambi i casi, mi permetto di definire improbabile la vittoria alle prossime elezioni – a meno di ipotizzare scenari da fantapolitica; troppo frammentato lo scenario del voto, troppe incertezze sulla legge elettorale che sarà in vigore. Ma quel giorno potrebbe arrivare, potrebbe arrivare sul serio. E pur nutrendo auspici differenti per l’Italia, non potremo rammaricarci di alcunché, se non dei nostri errori. È la democrazia, baby.
Buona domenica, lettori cari.
Emanuele Tanzilli
@EmaTanzilli
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