“Guerra fra poveri”. “Pogrom razzista”. “Quartiere fascista”. Nella nube di parole e impegni profusi nel novembre 2014 Tor Sapienza è stata il teatro/l’emblema di tutto questo.
A quei tempi i suoi residenti provavano l’ebbrezza della prima pagina, rifiutavano il corteggiamento dei partiti, percepivano il pregiudizio che sarebbe permaso anche successivamente al clamore mediatico.
Oggi che i tumulti contro la cooperativa Un Sorriso possiamo chiamarli “manovra mafiosa”, però, il quartiere non risiede più stabilmente nella hit parade delle disgrazie. D’altronde i roghi tossici difficilmente fanno notizia.
Per quasi un mese i fatti di Tor Sapienza avevano attirato gli sforzi dell’intellighenzia nazionale. Tra talk show alla ricerca del sangue, notiziari e articoli di giornale, veniva costruito un carosello di indignazione al cui interno i protagonisti della nostra politica ricercavano, tanto per cambiare, gloria personale: Salvini, Borghezio, Meloni. Tutti nei pressi di quella cooperativa sfregiata dalle pietre. Due minuti fra i mortali e via di nuovo verso il palazzo, dopo aver spiegato ai residenti quali fossero i loro problemi: l’amministrazione Marino.
Piombavano a Roma est anche i Cinque Stelle, cittadini fra i cittadini. E per rinforzare la propria immagine populista i vertici sceglievano di mandare nel trambusto mediatico Paola Taverna, la più popolare di tutti. La parlamentare di Quarticciolo diveniva quindi protagonista di un acceso dibattito con un residente, che spiegava di aver già cacciato nell’ordine Meloni e Borghezio. Lei a colpi di «Nun te poi permette de chiamamme politico» firmava invece un capolavoro passato alla storia del trash televisivo.
Ovviamente anche Marino, suo malgrado, dovette esprimersi sull’accaduto. Il suo “patto con Tor Sapienza” forse non verrà ricordato alla stessa maniera di quello con gli italiani di Berlusconi, ma ciò non toglie che anche in questo di promesse affascinanti ve ne fossero molte:
«Chiederemo se vi sono le condizioni per una diversa e più equa distribuzione cittadina degli ospiti dei centri di accoglienza. Metteremo, inoltre, a disposizione uno spazio del Comune da destinare a una nuova biblioteca per tutti. Chiamerò il presidente dell’Ama per un’azione incisiva di pulizia delle strade, raccolta dei rifiuti e contrasto del degrado, mentre il taglio degli alberi partirà da domani. E ho già chiamato Acea per gli interventi urgenti di ripristino e aumento dell’illuminazione di alcune vie»
L’indomani i residenti assistevano alla promessa potatura, e non è mai stato chiarito chi l’avesse richiesta. Mentre oggi, a due anni di distanza dai “fatti di Tor Sapienza”, tutti gli altri provvedimenti sono rimasti su carta.
Ma c’è di più. Perché oltre a scomodare esponenti politici di caratura nazionale, giornalisti di grande esperienza come Francesco Merlo (il cui servizio per Repubblica è in effetti suggestivo e ben fatto) e “conduttori di trasmissioni false” di gucciniana memoria, quel lembo di terra di “ordinaria bruttezza” (Merlo) è riuscito a finire anche nelle grazie del Papa.
«Non ci sia scontro ma incontro», proferì Francesco, che dunque oggi vede la sua infallibilità vacillare.
Perché? Semplice, i rigurgiti fascisti di Tor Sapienza furono una messa in scena. Vera invece la sassaiola, un vero regolamento di conti di stampo mafioso.
Già dalla precisa intervista realizzata a dicembre di quello stesso anno da Carlo Bonini per Repubblica si capiva che Gabriella Errico, titolare della cooperativa aggredita, più che la rivolta popolare temeva l’establishment del giro di immigrati al quale non si era piegata solo per mancanza di tempo.
Bonini ricostruisce:
È luglio, e Un sorriso si è azzardato a presentare una manifestazione di interesse per i servizi di guardiania e pulizia dei residence per i senza dimora. Buzzi chiama la Errico. (parla la Errico, ndr) «Mi disse: “Questa è roba nostra. Non devi metterti in mezzo”. Capii la musica. E lo rassicurai: “Va bene, ritiro la mia manifestazione di interesse”»
Quella manifestazione di interesse rimase invece in circolo fino ai “fatti di Tor Sapienza”, e la spiegazione a quella violenza altrimenti difficile da contestualizzare forse è stata trovata. La veridicità di queste affermazioni verrà stabilita dalle forze dell’ordine, ma i tre incendi occorsi alla sede in zona San Giovanni della cooperativa lasciano intendere che questa spiegazione sia quantomeno plausibile.
Ciò che qui invece ci interessa mettere a fuoco è altro: cosa ce ne facciamo di Tor Sapienza, ora che non è più il teatro di quella decantata insurrezione razzista (o forse “teatro” lo era eccome, dato che gli assalitori recitavano la parte dei residenti esasperati)? Ora che non fa più notizia, ora che la sua ribalta mediatica si è dimostrata inutile e indecorosa, ora che i suoi “fatti” possono essere classificati come ordinaria amministrazione in una città ordinata dal malaffare. Cosa ce ne facciamo oggi con il suo campo Rom, che a pochi chilometri dalla piazza (forse due) continua imperterrito a fare affari con il rame, ricavato dai roghi che quasi quotidianamente intossicano quei residenti in nome dei quali l’Italia, per quasi un mese, ha proferito sentenze? Ma soprattutto, qualcuno gliel’ha detto, a quei residenti, che non sono fascisti?
È Natale, la vita a Tor Sapienza procede come al solito. Qualche giorno fa una ragazza cinese è stata trucidata sotto le rotaie di un treno.
I razzisti di Tor Sapienza, con un flash mob dalle dimensioni limitate, si sono raccolti intorno al malmesso albero di natale che svetta nel mezzo di una rotonda.
Manifestano per una cinese, sentono di non essere sicuri. All’albero, legano dei pacchi regalo con su scritto ciò che veramente vorrebbero ricevere per natale.
«Legalità», «Sicurezza», «Basta roghi tossici».
Il cellofan permetterà alle scritte di reggere alla pioggia.
Valerio Santori
(Twitter: @santo_santori)