La grassofobia, come suggerisce il termine, è letteralmente la fobia o la paura profonda del grasso, inteso come l’essere “sovrappeso” dei nostri corpi.

Quando si parla di grassofobia è necessario analizzare i termini che vengono messi in gioco quando si affronta questa tematica, ed è altrettanto fondamentale rifarsi alla loro provenienza: ad esempio l’essere in sovrappeso racchiude in sé una connotazione chiaramente negativa, associata al rischio di compromettere volontariamente la propria salute con un’alimentazione poco sana. Tuttavia bisognerebbe fare una riflessione molto più profonda sul tema della grassezza dei corpi e dell’obesità, che non sono sinonimi, anche se spesso vengono utilizzati come tali.

L’obesità è una patologia riconosciuta e, se diagnosticata, passibile di guarigione attraverso interventi farmacologici e dietetici di vario tipo. La grassezza al contrario più che una malattia è uno stigma sociale, una valutazione dispregiativa di tutti quei corpi che non rientrano nel campo normativo della magrezza, della taglia 38, della silhouette perfetta e della totale preponderanza dei muscoli su quello che comunemente è chiamato grasso.

L’IMC, ossia l’indice di massa corporea (traslitterazione dell’inglese Body Mass Index), è un dato biometrico, espresso come rapporto tra peso e quadrato dell’altezza di un individuo ed è utilizzato come un indicatore dello stato di peso forma.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) e la medicina nutrizionale usano l’ICM come unità di misura per  stabilire quale sia il limite fra “magrezza” e “obesità”.

L’IMC è stato introdotto dal fisiologo Ancel Keys nel 1972, anche se la scoperta della formula è di un matematico belga chiamato Quetelet, che concluse in uno dei suoi studi antropometrici sulla crescita umana che il peso di un uomo cresce con il quadrato dell’altezza. Questo indice è spesso utilizzato in maniera grossolana, in quanto non integrato da un fattore basilare come il sesso e da caratteristiche morfologiche di base quali larghezza delle spalle, larghezza ossea del bacino, circonferenza cranica, rapporto tra lunghezza delle gambe e lunghezza del tronco, corporatura di tipo tendenzialmente muscoloso o flaccido e altri fattori. È inoltre fondamentale considerare la percentuale di massa grassa e massa magra del soggetto.

Michel Foucault, filosofo e sociologo post-strutturalista (1926-1984), sosteneva che mentre precedentemente le reti di potere passavano attraverso il soggiogamento dell’anima, oggi passano invece attraverso il soggiogamento della salute e del corpo.

La normatività applicata ai corpi potrebbe vedersi come una forza che non solo semplicemente li domina, ma allo stesso tempo li determina e li produce.

È innegabile il fatto che la nostra crescita, all’interno di questo preciso contesto culturale, è caratterizzata da un divenire all’interno della società sospeso tra ciò che siamo e ciò che dovremmo essere, un divenire che non viene dettato dal caos, ma che si è instaurato e continua a riprodursi all’interno della società, in quanto produzione di meccanismi di potere e disciplinamento specifici. Sempre Foucault all’interno del celebre testo Sorvegliare e punire parla di corpi ortopedizzati dal potere, ovvero piegati e  plasmati  a interessi a esso ulteriori, che tuttavia continuano a sancire le dimensioni di possibilità di un corpo nello spazio e nel tempo. Risulta evidente che il disciplinamento dei corpi, l’assunzione di canoni corporalmente “accettati” e non, non è solo una questione estetica, ma piuttosto fortemente politica.

La grassofobia è il risultato di un determinato tipo di politica, così come lo sono la xenofobia, il razzismo, l’omofobia e  altre “malattie sociali”.

La questione centrale è che la politica, mentre sancisce determinati tipi di norme che identificano quali sono i corpi riconosciuti e che “contano” all’interno di una società, opera allo stesso tempo un’esclusione e un’emarginazione di tutti quei corpi che non rientrano all’interno di tale categorizzazione. Tale esclusione non è solo ideale e priva di conseguenze, ma si concretizza nella parziale e sempre più spesso totale mancanza di un riscontro sociale di questi soggetti all’interno della società. Il corpo delle persone “in carne” diviene un corpo dannoso, stigmatizzato, facile all’insulto, da curare per farlo rientrare in modelli precostituiti funzionali, da offendere e insultare se non soddisfa o tenta di avvicinarsi a quello stesso modello di perfezione preimpostato.

Vi sono in rete numerosi blog che trattano il tema della grassofobia, e andandone a leggere qualcuno si potrà notare quanto sia urgente riflettere maggiormente su questo tema, per la quantità di persone che soffrono il body-shaming e per il dilagare di patologie come l’anoressia e la bulimia, di cui già è riconosciuta l’origine psicologica individuale, ma di cui è totalmente sminuita la radice sociale. L’assenza di rappresentazione di diverse tipologie fisiche all’interno dello spazio sociale, così come la valorizzazione dell’apparenza e il culto sfrenato di un’estetica spesso vuota e siliconata, non sono elementi accessori per la crescita e lo sviluppo sia di patologie come quelle sopracitate, sia di senso di inadeguatezza e depressione verso una società che crea sempre più esclusioni.

A questo proposito, in Paesi come la Spagna e gli Stati Uniti stanno nascendo movimenti di rivendicazione per la visibilità delle persone grasse e per combattere la grassofobia.

Uso il termine grasse, traducendolo letteralmente dai vari manifesti reperibili sulla rete, poiché uno dei punti principali di tale rivendicazione è proprio quello di dare un nuovo significato, privo di connotati negativi, al termine grasso. Sostenere di possedere un corpo grasso, di essere grassi e felici, di essere grassi e avere una vita erotica soddisfacente, di essere grassi e potersi mettere in pantaloncini non è un’operazione linguistica né mediatica da poco. La filosofa americana Judith Butler sostiene che assumere un nome con cui si è stati definiti e sottomessi a una legge di prevaricazione per molto tempo può portare a un processo di autodeterminazione e ri-significazione, il quale rende la parola che precedentemente feriva una parola di resistenza che nel suo impiego distrugge il suo significato previo.

Sara Bortolati

6 Commenti

  1. essere obesi gravi non è solo anti-estetico, fa anche male alla salute come fa male essere scheletrici, e dimagrire in maniera ssana si può, dire questo è realtà, non è grassofobia. Il bullismo va combattuto, ma chi è molto obeso deve accettare di essere meno bello di chi è normopeso o sanamente snello

    • Non sono d’accordo, perché qualcuno si dovrebbe sentire meno bello? È come dire che se una persona è diabetica è meno bella di una che non lo è. Se poi questo è un suo pensiero ok ma comunque è lesivo se condiviso in questo modo. Poi sta alle persone scegliere se dimagrire in modo sano o meno ma non deve essere un obbligo perché altrimenti sono una vergogna per la società…

  2. La grassezza non è ‘una valutazione dispregiativa’, ma una valutazione oggettiva, come è oggettivo che io ho i capelli castani e che sono alta 1.65. A chi verrebbe mai in mente di attribuire una valenza dispregiativa all’aggettivo ‘castano’? E perchè dovrebbe essere diverso per l’aggettivo ‘grasso’?
    Perchè uno dovrebbe vergognarsi e sentirsi in colpa per il fatto di non trovare attraenti i corpi grassi? È ovvio che questo non autorizza al body shaming, ci mancherebbe, ma perchè parlare di ‘emarginazione’ come se le persone grasse fossero state messe in un recinto dai magri cattivoni? Questa è un’auto-ghettizzazione. E soprattutto, così come non è sano elevare a modello un corpo eccessivamente magro, altrettanto insano è promuovere la grassezza.. ‘Silhouette perfetta e totale preponderanza dei muscoli sul grasso’, oddio è così terribile che si elevi a modello un corpo sano e forte, che deriva probabilmente da una sana alimentazione, da una regolare attività fisica, da uno stile di vita sano?
    Il politically correct sta facendo disastri.

    • Si tratta sicuramente di una valutazione oggettivizzabile, ma è innegabile che il termine sia corredato dal disprezzo (dire ad una persona sei grasso/a non ha lo stesso impatto di dire che sia castana, alta, o bassa). Per quanto riguarda il fattore del piacere estetico potrei concedere che i gusti sono gusti e per questo non vanno discussi, tuttavia non sono così sicura che l’ideale di bellezza sia del tutto sganciato da norme ed influenze sociali (sempre servendomi di un esempio molto banale, i canoni estetici di bellezza sono cambiati nel corso dei secoli, il che è riscontrabile nell’arte o nella letteratura etc). Ho scritto questo articolo non per rinchiudermi tra le morse del politically correct, nè per sventolare la bandiera del pietismo o dell’emarginazione delle persone “grasse” (termine che utilizzo sempre con l’accezione specificata nell’articolo) e nemmeno per scatenare senso di colpa nei confronti di chi sia normopeso; quello che mi ha spinto ad approfondire questa tematica è una semplice domanda: il corpo può essere regolato, normativizzato, normalizzato dalla società e/o dalla politica? Gli autori che ho citato non si limitano a sostenere di si, ma approfondiscono e argomentano a dovere quanto sostengono.
      Una piccola provocazione: un corpo sano non dovrebbe limitarsi ad essere un corpo scolpito esteriormente, ma potrebbe essere anche un corpo felice, un corpo accettato, un corpo non sempre perfetto (e con questo non voglio assolutamente dire che l’attività fisica o una vita all’insegna dello sport siano il male in terra).

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