Nella citazione della poesia “Cultivo una rosa blanca” di José Martí, eroe dell’indipendenza cubana, nell’offerta di un “saludo de paz”, nel proclamare che “todos somos americanos” e nell’affermare che, insieme, “sí, se puede”: è in queste poche parole in spagnolo, nel contesto di un efficace discorso, che si può riassumere il valore della visita di Barack Obama a L’Avana.
L’uso dell’idioma dello storico avversario suggella la proposta del nuovo patto tra Cuba e l’America, sottolinea la disponibilità yankee al dialogo e alla comprensione, pur se non si parla la stessa lingua, e, contemporaneamente, si rivolge direttamente al popolo, senza intermediari, rassicurando sul fatto che stavolta non si tratta di uno dei soliti cavalli di Troia imperialisti, di cui Fidel ha storicamente insegnato ai cubani a diffidare: eccola, l’abilità diplomatica e retorica di Obama, mai così determinato a lasciare un segno positivo del suo mandato in politica estera.
Il filo conduttore della prima visita dal 1928 di un Presidente americano in carica è stato quello della riconciliazione nella differenza. La teoria sociologica dei sei gradi di separazione afferma che solo cinque intermediari intercorrono tra ognuno di noi e una qualunque altra persona o cosa: ecco, Obama e Raúl Castro hanno inteso dimostrare che, nonostante i gradi di separazione tra Stati Uniti e Cuba permangano (dalle incomprensioni sui diritti umani all’embargo, all’imperialismo politico ed economico yankee), alla fine quello che conta oggi è il recupero del sotterraneo legame tra i due Paesi.
Del resto, sostenere un riavvicinamento nel mantenimento delle diversità reciproche è utile politicamente ad entrambi i Paesi.
Innanzitutto Obama, avvertendo senza mezzi termini Castro di considerare ancora lunga la strada da percorrere per l’affermazione dei valori democratici nell’isola, consente agli Stati Uniti di non sbilanciarsi nel nuovo approccio al regime (che ancora è considerato tale) e di non mostrarsi troppo morbido con la concezione padronale castrista del potere: non a caso, il Presidente nel suo discorso ha detto che «oggi voglio farvi partecipi della mia visione del nostro possibile futuro. Non posso costringervi ad aderirvi, ma è bene che sappiate cosa penso», esponendo poi il suo programma ideale per lo sviluppo, in realtà fondamentalmente un compendio di indirette critiche su tutto ciò che per ora non va nel regime dell’Avana, mascherato con un’intelligente retorica da “yo tengo un sueño” di lutherkinghiana memoria in salsa latina. Del resto, sarebbe impossibile per gli Stati Uniti voltare di colpo le spalle alle migliaia di esuli politici cubani sul suo territorio, tra i quali un buon numero si è anche prepotentemente inserito nel tessuto sociopolitico ed economico americano, arrivando ad esprimere un concorrente alla corsa alla nomination repubblicana per le presidenziali, Marco Rubio; sarebbe parimenti impensabile per Washington abbandonare quegli incredibili privilegi che una strana Storia le ha concesso su Cuba, come la base di Guantanamo, edificata su un fazzoletto di spiaggia donato da L’Avana agli yankee nel 1906, che rappresenta un’altra delle note dolenti del rapporto tra i due Paesi; la stessa rimozione dell’embargo, inoltre, sarebbe da condizionare ad aperture economiche così importanti nei confronti del capitale americano, da rendere indispensabili garanzie in questo senso, che però per ora il governo cubano non può o non vuole concedere.
Dall’altra parte, Raúl Castro ha sgombrato il campo da ogni dubbio: Cuba non si sta piegando a Washington, non sta elemosinando la fine dell’embargo in cambio del cadavere della rivoluzione e della sua dignità. Proprio l’embargo è stato un tema centrale della visita di Obama, ma è come se Castro avesse fatto costantemente notare che, nonostante la decisività della sua rimozione per lo sviluppo dell’economia cubana, la questione della sua cessazione rappresenta più un problema politico esclusivamente statunitense. Riconoscendo pubblicamente il prodigarsi di Obama per la fine del blockade, Castro indirettamente sottolinea come sia la volontà politica della maggioranza repubblicana del Congresso americano a mancare: Cuba ha ancora il sospetto che l’aperura nei suoi confronti sia dunque l’iniziativa, per quanto encomiabile, di un singolo, peraltro al tramonto del suo potere, e che l’America non sia in realtà ancora pronta per accettarla così com’è. Del resto, in questo momento non è facile dare torto a Castro, considerato cosa rappresenta un personaggio come Trump, o che il candidato repubblicano e ispanoamericano Ted Cruz esprime “tristezza” per la visita di Obama a Cuba.
Certo, sul futuro dell’isola pesa ormai l’anzianità e l’inadeguatezza del regime a far fronte alle sfide socioeconomiche del futuro; i giovani domandano apertura al mondo, liberalizzazione economica e culturale. L’apertura all’investimento privato anche straniero e all’esercizio di alcuni diritti e libertà scontati per la cultura liberale occidentale, ma non tali a Cuba, come la capacità di alienare un’automobile di proprietà privata tra cittadini o di connettersi ad internet, non possono ancora nascondere la repressione, gli arresti, le dozzine di prigionieri politici incarcerati con la scusa della commissione di reati ordinari: questi non possono essere solo invenzione dei media occidentali o dei rancorosi esuli. Anche il giorno prima della visita di Obama sono stati operati diversi fermi di manifestanti dell’opposizione e ai negozi sul percorso del corteo presidenziale è stata intimata la chiusura. Gli allarmi sulle violazioni dei diritti umani sono continui e costanti. L’unica domanda in grado di irritare Raúl Castro durante la conferenza stampa congiunta con Obama è stata proprio quella sui prigionieri politici, posta da un giornalista della CNN, figlio di esuli cubani: mi faccia il nome di un solo prigioniero politico di cui lei sia a conoscenza, ha provocatoriamente risposto Castro, e sarà subito libero.
Gli ostacoli al reintegro cubano nella comunità internazionale non sembrano invece essere più rappresentati dalle amicizie pericolose di L’Avana: con Cina e Russia che hanno altri pensieri, oggi nemmeno il legame col Venezuela fa più così paura agli USA. È vero, il petrolio di Caracas ha tenuto in vita Cuba e Maduro l’ha ribadito a Castro, quando l’ha incontrato proprio un paio di giorni prima dell’arrivo di Obama, chiedendogli di ricordarsi dei vecchi amici e di mettere una buona parola per il Venezuela con Obama.
Cosa rimane dunque della visita di Obama a Cuba?
In realtà, per ora, non molto di concreto. Con le elezioni americane in novembre, parecchio dipenderà dal colore del prossimo Presidente USA. Con il blocco geopolitico rivoluzionario latinoamericano in crisi, anche se l’orgoglio castrista non lo ammetterà mai, la dipendenza di Cuba dalle lune degli Stati Uniti è oggi fortissima. Per ora resta comunque l’“esperanza” popolare che questo incontro storico significhi davvero qualcosa di positivo per il futuro del Paese. Non c’è da giurare che tutti i cubani siano nettamente filoamericani, o che pretendano per il futuro dell’isola una colonizzazione made in USA; tuttavia, ormai la stanchezza del popolo per più di cinquant’anni di isolamento si percepisce nettamente e la domanda di un cambiamento, di una rivoluzione della rivoluzione, appare sempre più decisa.
Ludovico Maremonti