Libero Pensiero ha visitato il MAAM di Via Prenestina 913, periferia est di Roma. Un edificio “anormale” nell’ordinaria bruttezza periferica, in cui il sabato nella stanza della cucina potreste essere così fortunati da incontrare Giorgio de Finis, il suo ideatore. Qui vecchie casse adagiate ai muri emanano musica popolare dell’est.
Il MAAM è la sua creatura, un museo d’arte contemporanea misto a un’occupazione abusiva, «una barricata d’arte» che vede innalzare il proprio valore costantemente, grazie a un flusso continuo di opere che qui trovano uno spazio nuovo in cui prendere senso. Come spiega de Finis: «Puoi trovare Pistoletto ma anche il graffito di un ventenne che non vale nulla, gli artisti si fanno la guerra fuori ma qui sono amici».
de Finis (perché vuole che venga scritto minuscolo, «Ma come, mi chiamano direttore squatter e poi mi mettete l’araldica?») è un antropologo/videomaker/artista autore di saggi scientifici, documentari televisivi e ricerche etnografiche, che ha col tempo indirizzato i suoi campi di attività verso le periferie urbane.
Innanzitutto la domanda classica: cos’è il MAAM e qual è la sua missione? Credo sia complicato descriverlo in maniera completa, da quanto ho potuto vedere è un qualcosa di estremamente complesso.
«MAAM sta per Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, e Metropoliz_città meticcia è il nome che si sono dati coloro che hanno effettuato questa occupazione abitativa.
Nel 2009 duecento persone legate ai Blocchi Metropolitani hanno occupato questo salumificio dismesso, la Fiorucci di Via Prenestina 913. L’edificio è stato dismesso perché con la Cassa del Mezzogiorno conveniva spostarsi a sud, ovvero sulla Pontina, a 20 kilometri da qui (ride, ndr). Il museo nasce nel 2012, successivamente alla conclusione di Space Metropoliz, che era un cantiere cinematografico all’interno del quale avevamo chiesto agli abitanti di Metropoliz di costruire provocatoriamente un razzo per andare sulla luna, intesa come ultimo spazio pubblico della terra in cui ricominciare, un foglio bianco dove riscrivere la società.»
Da qui il telescopio posizionato sopra la torre dell’edificio?
«Sì, da qui il telescopio di Gian Maria Tosatti, che voi a Napoli conoscete perché lì ha lungamente lavorato. Quindi il nostro obiettivo era far costruire provocatoriamente questo razzo e a cascata realizzare un documentario sull’avvenuto, raccontando la storia dei metropoliziani sulla luna. Una sorta di “Le voyage dans la lune” di Méliès. Volevamo puntare un riflettore: Roma sta diventando sempre più simile a Mumbai, con un’emergenza abitativa enorme.»
E il nome del museo? Mi sono chiesto: l’Altro e l’Altrove più o meno sono la stessa cosa, l’altro comprende il suo altrove nella sua persona. Invece da quanto detto ora l’Altrove è il progetto utopico e quindi la luna?
«L’Altrove è utopico, è un altro spazio e un’altra dimensione, la luna. L’Altro è per ricordare la Città Meticcia e per far capire che noi non stiamo facendo né il museo dei metropoliziani né dei Blocchi Precari Metropolitani, che pure stimiamo e appoggiamo. Stiamo facendo un progetto dove ciascuno è portatore di un mondo a sé, gli artisti sono questo per definizione. Ciascuno è altro rispetto a tutti gli altri e anche rispetto a se stesso. Allo stesso tempo è anche per valorizzare la differenza, non solo etnica.»
In generale, gli obiettivi del MAAM?
«Te li sintetizzo:
1) Fare una barricata d’arte per difendere questo luogo, dato che c’è un processo in atto e il rischio sgombero è sempre presente. Le sedie per fare la barricata sono tutte uguali, possono essere di Luigi XVI o quelle dell’osteria, quelle di Luigi XVI portano più valore ovviamente, e quindi più protezione. Quando la ruspa butta giù Pistoletto è un qualcosa di grave. Siamo come il lottatore di Judo che sfrutta la forza di chi lo attacca, noi sfruttiamo la forza del mercato, che dà valore alle opere qui realizzate, e in questo modo difendiamo il luogo dal mercato stesso.
2) Mentre la barricata crea un muro in difesa, portare qui l’arte è creare un accesso in questo spazio periferico. Portiamo Roma qui. Il MAAM è un grande dispositivo di incontro che trasforma Metropoliz nel bar di Guerre Stellari. Dicono che Roma è liquida ma ci sono muri invisibili, quando ti conoscono per prima cosa ti chiedono di che zona sei per capire chi hanno davanti.
3) Bonificare questo spazio, capire quale effetto l’arte può avere in questo luogo in cui spesso addirittura gli abitanti nemmeno hanno interesse per le opere. Il MAAM è sì una grande collezione ma anche un’opera unica, è come se ogni opera fosse la tessera di un mosaico. Negli altri musei ciò non avviene, c’è una sorta di separazione tra le varie “malattie dell’arte” (ride ndr). Il MAAM è come il mantello di Arlecchino di Serres, questo racconto in cui si scopre che Arlecchino sotto i vestiti è completamente tatuato, poi si continua a spellare come una cipolla e arriva al bianco, la somma di tutti i colori. Il bianco della luna, per questo la luna e la città meticcia stanno insieme.»
Come si rapporta questo posto con il quartiere in cui è collocato? Tor Sapienza è un luogo che qualche anno fa è stato al centro di una sorta di evento mediatico: il lancio delle pietre verso una cooperativa che ospitava migranti. Sappiamo che il tutto fu molto costruito, ci fu di mezzo Mafia Capitale e la cooperativa bersagliata subiva pressioni, ma quale è il rapporto del Museo con questo luogo?
«Diciamo che la notorietà del MAAM è inversamente proporzionale alla distanza che lo separa dalla gente. Se chiedi alla signora che abita qui vicino magari non sa cos’è il MAAM ma magari non sa neanche cos’è il MAXXI… Tutti questi quartieri hanno un po’ di malessere, e Metropoliz è anche stata vista come la tana degli zingari che frugano nei cassonetti. Certo è difficile fargli apprezzare un’opera come il MAAM, che comunque lavora in generale per la città, non solo per Metropoliz o Tor Sapienza. Poi ben venga che Tor Sapienza riesca a godersi il MAAM, ma noi puntiamo alla città intera, rompiamo le scatole al MAXXI e al MACRO, tanto è vero che ora c’è un’ipotesi di MACRO in stile MAAM. Ovvero la periferia che va al centro e non il contrario, che è una cosa abbastanza strana. Di solito c’è una sorta di ghettizzazione artistica, ovvero alla periferia si lascia solo l’arte di strada.»
La periferia è il luogo della disillusione più totale, rispetto alla politica e ad altro, potrebbe nascere proprio qui qualcosa di nuovo? Forzatamente nuovo, visto che non ci sono basi…
«Marc Augé ha definito questo spazio come superluogo, e aveva teorizzato la dualità mondo-città, città-mondo. Dice che in tutti i luoghi esiste la città mondo, che è sempre uguale, la città delle boutique, dei musei/bar/caffetterie/shop eccetera… e poi c’è l’altra città, che può essere di grande aiuto rispetto alla prima, che è un vero e proprio disastro per vitalità. Il centro di Roma è troppo commercializzato, non è più un luogo. Questi luoghi della periferia che nascono senza piano, senza un sistema, “a cavolo”, sono molto più interessanti.
Io avevo proposto per una riqualificazione di Corviale, quindi per rinnovare il lavoro di Fiorentino, non opere di street art, ma di portare sul tetto di questo edificio una succursale dei Musei Capitolini, l’idea era portare un pezzo del patrimonio artistico del centro a Corviale. Corviale è Remo, mentre il centro storico è Romolo, che traccia i confini della città e uccide il fratello tenendosi tutto.»
Cosa ne pensano gli abitanti di Metropoliz dell’essere diventati un museo?
«Questo devi chiederlo a loro, io non posso immedesimarmi. Ci sono anime diverse in questo luogo, certamente. Ci sono i Blocchi Metropolitani, e molto spesso gli abitanti hanno polemizzato verso delle opere, dicendo che non li rappresentavano. Però questo rapporto è sempre complesso: a volte gli occupanti vestivano i panni del committente e ci dicevano “questa parete la voglio rosa fammela così”, ma abbiamo chiarito che loro non erano i committenti, e che questo museo non celebra gli occupanti come succedeva in certi paesi socialisti, con quelle opere didascaliche che celebravano l’avvento della rivoluzione. Gli artisti che vengono qui usano il loro stile, raccontano cosa sono loro e cos’è questo posto per loro.
Il rapporto con gli abitanti a volte è stato difficile, ormai da circa due anni non è più così. Ma non ti nascondo che qualche opera che elogia la pace fra i popoli è stata avversata, sono persone messe al bando da tutto e non è facile fargli piacere un’opera che celebra la pace. Ti dicono “Ma pace de che?”. Se leggi su qualche muro intorno a Metropoliz c’è scritto “morte ai ricchi”, non sono scritte che abbiamo fatto noi. Noi vogliamo uscire dagli stereotipi, il messaggio è che a volte gli alleati sono anche dall’altra parte della trincea.»
L’Altro è anche l’animale? Questo era un salumificio…
«Alcuni artisti hanno realizzato opere in questo senso, ad esempio abbiamo avuto la performance di un artista militante che si è tatuato una X per ogni maiale morto in un anno. Questo non ci ha vietato di mangiare comunque la carne, ognuno porta la sua visione del mondo e questa è ricchezza. Mi dicono che le urla dei maiali qui macellati si sentivano per tutta Tor Sapienza, certamente quella animalista è una delle anime del luogo.»
Cosa ne sarà di questo posto e cosa ne sarà di te (ti do del tu visto che altrimenti ti arrabbi)? Si parla di te come prossimo direttore del MACRO.
«Di questa cosa del MACRO non posso molto parlare…»
Facciamo un esercizio di immaginazione, come sarebbe il MACRO di Giorgio de Finis? Meno audio-guide?
«Non sarebbe il MACRO che conosci. Mettiamola con mille se, ma semmai dovessi dirigerlo diventerebbe anche questo un grande dispositivo di incontro della città. Dove gli artisti stanno, non portano solo le opere. E le opere entrano se sono ancora bagnate.
La città e gli artisti devono potersi incontrare perché è più utile a entrambi. Il cittadino non deve andare per inchinarsi di fronte ad altari, ma per incontrare gli artisti. La prima cosa che farei sarebbe un appello: “chiunque vuole giocare alzi la mano e venga”. Utilizzerei anche l’autocandidatura, come è successo qui. Il Museo non deve più stabilire una gerarchia, e dire chi è bravo e chi no. A Londra l’hanno fatto, dobbiamo aprire le porte e goderci cosa l’arte liquida del nuovo millennio può darci. Viviamo in un’altra epoca, non ci sono manifesti, la critica è per forza limitata di fronte alla sconfinata offerta. Immagino un museo che non sia un contenitore ma un contenuto. Un posto vivo con ingresso gratuito.»
Intervista e foto a cura di Valerio Santori
(twitter: @santo_santori)