Sorridono entrambi, Francesco e Giuseppe, mentre si stringono le mani nascondendole sotto il tavolo al quale sono seduti, nel piccolo bar in cui ci siamo dati appuntamento. Nonostante la loro giovane età hanno negli occhi quel non so che di adulto, come chi è stato costretto a crescere troppo in fretta.
Ordiniamo del vino, siamo tutti maggiorenni, dopotutto. Lascio decidere a loro da quale parte della storia cominciare a raccontare.
“Non parlo da figlio perché non mi sento un figlio, ti parlo da essere umano. E, in quanto essere umano, mi sento abbastanza disgustato“. È Francesco, il più piccolo dei due, a parlare per primo e a scegliere di rispettare l’ordine cronologico degli eventi. “Il mio calvario personale è iniziato più o meno intorno ai miei tredici anni, quando l’alcolismo di mio padre e l’incapacità di reagire di mia madre costrinsero me e le mie due sorelle, che adesso hanno 10 e 22 anni, ad essere temporaneamente trasferiti in una casa famiglia. Anche se allora ero soltanto un adolescente, riuscivo già a rendermi conto dei danni emotivi che le mancanze da parte dei nostri genitori ci avevano causato: avevamo difficoltà a relazionarci con le persone, ci sentivamo costantemente a disagio“.
Francesco, che ha da poco compiuto 18 anni, mi racconta delle brutte esperienze vissute anche all’interno della casa famiglia, del suo ritorno a casa, dei suoi sedici anni passati ad assistere alla battaglia legale per il divorzio dei genitori.
“Quando mia madre riuscì finalmente ad ottenere il divorzio, prese con sé mia sorella minore ed andò via, lasciandomi, ancora minorenne, insieme a mia sorella maggiore e a mio padre. Lui seguì dopo poco l’esempio di mia madre e ci abbandonò a noi stessi. Fui costretto a sedici anni ad abbandonare gli studi e a cominciare a lavorare per riuscire a mangiare. Avevo compiuto diciott’anni da meno di un mese quando mia madre mi costrinse ad andare via di casa, fomentata e sostenuta anche dal resto della famiglia, che accusava me e la mia omosessualità di essere un pericolo per la mia sorella minore. Aveva aspettato che diventassi maggiorenne per cacciarmi“.
Giuseppe mi spiega che, fortunatamente, poco prima che Francesco compisse diciott’anni, si erano conosciuti ed innamorati, diventando immediatamente l’uno il sostegno dell’altro. Mi raccontano dei mesi passati in strada, delle poche sere in cui riuscivano a trovare asilo a casa di qualche amico, delle valigie e delle cose che tengono ancora disseminate nelle case di chi ha voluto dar loro una mano.
Si scambiano un cenno di intesa tra una confessione e l’altra, come a darsi sostegno a vicenda, ad invogliare l’altro a continuare il racconto. Sanno che c’è bisogno di far conoscere agli altri la loro storia, per sensibilizzare animi e coscienze e far sì che ciò che è accaduto loro non capiti anche ad altri.
“Lavoravamo entrambi, continua Francesco, e riuscimmo anche a prendere un piccolo monolocale fatiscente per qualche mese. Ricordo che all’interno non c’era nulla, che abbiamo patito il freddo e la fame. Ero stremato da tutto e caddi in depressione, persi più di dieci chili. Mi sentivo solo. Giuseppe lavorava in una pasticceria, andava via il pomeriggio presto e rincasava di notte. Stavamo vivendo una situazione più grande di noi e non sapevamo come gestirla, la cosa ci portò ad allontanarci, purtroppo“.
Entrambi assumono un’espressione rattristata ripensando a tutte le prove che sono stati costretti a superare. Dopo un ulteriore risvolto negativo della storia, dato dalla scelta che la famiglia di Giuseppe lo aveva costretto a fare tra la sua identità ed un tetto sicuro, mi raccontano entrambi quello che sembra essere il principio di un lieto fine.
“Giuseppe ha scelto me” spiega Francesco, tenendo un’espressione che non può essere totalmente di gioia, dato che il suo compagno, per non rinunciare alla sua identità ed alla persona che ama, ha dovuto rinunciare alla propria famiglia. Mi raccontano delle ultime settimane passate a patire ancora la fame, a dormire in strada e a lavarsi in spiaggia, fino a quando un amico non ha consigliato loro di rivolgersi all’Arcigay di Napoli.
“Ci hanno accolti la sera stessa, ospitandoci a casa di Antonello“, mi spiega Francesco. Antonello Sannino è il presidente dell’Arcigay di Napoli. “Preferisco dormire a terra, piuttosto che lasciarli ancora una notte in strada” mi ha detto al telefono, spiegandomi anche di aver ricevuto alcune proposte da parte dell’Arcigay di Roma e Milano per trovare un alloggio ai due ragazzi.
Purtroppo, non è stato possibile trovare un’altra sistemazione, anche se temporanea, per Francesco e Giuseppe nelle zone di Napoli, in quanto non vi sono aree disponibili. Esiste un bene che fu confiscato alla camorra durante l’amministrazione Iervolino che, stando a quanto riportato sul sito del comune, ha come destinazione d’uso attuale quella di ‘centro polifunzionale per l’accoglienza di giovani omosessuali e transessuali’ ma che, al momento, non è stato ancora utilizzato.
Simona Marino, delegata per le pari opportunità del Comune di Napoli, mi ha spiegato che l’appartamento di 60 mq in questione, sito in Via Genovesi, è adesso in fase di ristrutturazione e sarà terminato e pronto all’uso a settembre. (Qui le info per aiutare Francesco e Giuseppe)
“Ciò che vorrei è poter terminare gli studi, riuscire a trovare un lavoro per cercare di recuperare almeno una parte degli anni persi per colpa di chi non ha saputo starmi vicino perché troppo ignorante per essere in grado di accettare la mia omosessualità” dice ancora Francesco.
Chiedo ad entrambi di scattare una foto, mi spiegano che sono costretti a rifiutare per tutelarsi. Ma avreste davvero dovuto vederli, Francesco e Giuseppe.
Fino a quando storie come questa continueranno a passare inosservate, storie come quella di Vincenzo Ruggiero continueranno ad attirare l’attenzione della cronaca principalmente per via dell’epiteto utilizzato nei titoli dei giornali e non per la gravità del delitto in sé, non riusciremo mai a mettere a freno l’ipocrisia tutta italiana del genitore che abbandona un figlio utilizzando come scusa la volontà di tutelare la crescita della figlia minore. Fino a quando Francesco e Giuseppe saranno costretti a nascondere le mani che hanno voglia di stringersi sotto ai tavoli, nessuno di noi avrà mai il diritto di potersi definire un essere umano.
Sara Cerreto