Viviamo nella logica del “di più non basta mai”, in un mondo in cui regna il bisogno di affermazione personale. Come nasce tutto ciò in ognuno di noi? Potrebbe aiutarci Freud, oppure un esperto di sociologia… Ma proviamo a osservare questo mare di nebbia in cui ci troviamo, come il “viandante” nel celebre quadro di Friedrich, con gli occhi di una personalità del passato.
Asti, 1749, nasce Vittorio Alfieri, un bambino così fortunato da poter frequentare a nove anni la Reale Accademia di Torino. Con questi presupposti, per il giovane Vittorio si prevedeva un futuro radioso, ma quest’ uomo preferirà strade più complesse…
Uscito dall’accademia, Alfieri non era contento della formazione pedantesca che gli fu impartita, giudicata da lui “ineducazione”. Voleva evadere, voleva viaggiare. Fu così che a 18 anni partì per il “grand tour” per l’Europa. Questo fu per lui un viaggio decisamente diverso da quello dei suoi coetanei. Il giovane andava alla ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare. Forse, viaggiando, voleva stordirsi, dimenticando il vuoto immenso che aveva dentro.
Si sentiva inadeguato al mondo in cui viveva, come spesso capita nella vita di ogni grande genio. Era insofferente verso i regimi assolutisti dell’ Europa occidentale, ma soprattutto, predicava con grande impegno l’ideale di libertà. Ma quest’uomo era ben altro che un semplice predicatore libertino alla maniera dei più grandi illuministi che lo precedettero. La libertà che predicava era il riflesso del suo desiderio di assoluto, inarrestabile per qualsiasi tipo di ragione.
Per riuscire a realizzarsi a pieno, il “liber uomo” non deve trovare impedimenti sul suo cammino. Uno di questi è la tirannide, argomento del suo primo trattato, nel quale Alfieri la combatterà attraverso la penna. Questa passerà da “surrogato” della spada a unica ragione di vita. Un Alfieri maturo riterrà che
“Il dire altamente cose, è un farle in gran parte.”
Ma procediamo con ordine. Tornando alla vita di un Alfieri ormai adulto, ci ritroviamo a Torino, in un periodo di transito. Alfieri si dedicava all’ attività letteraria, in particolare alle letture di Plutarco. Questo suscitava nel ragazzo, che qui viveva una vita simile a quella del “giovin signore” di Parini, “un trasporto di grida, pianti e furori”.
A Torino avviene la svolta. Era il momento che il grande vuoto che Alfieri aveva dentro di sè si colmasse. Si ritrovò nelle mani una tragedia che aveva abbozzato da ragazzo, “Antonio e Cleopatra”. Rileggendola, si emozionò nel riconoscere le somiglianze con la sua relazione con una donna conosciuta qualche anno prima, Gabriella Turinetti. Quel giorno Alfieri riscoprì un genere che forse possedeva già da tempo. Portò a compimento con successo la sua prima tragedia e iniziò la sua “conversione”, come afferma egli stesso nella “Vita”. Da questo momento potrà mettere su carta e poi su un palcoscenico le sue aspirazioni verso l’ infinito. Creerà personaggi “titanici”, attraverso un genere sublime che si prestava perfettamente a ciò.
Così si recò in Toscana per studiare lettere classiche. Qui conobbe Louise Stolberg, contessa di Albany. Agli albori della Rivoluzione Francese andò a vivere in Francia con quest’ ultima. Molto curioso è il fatto che il “titanismo”, nei personaggi alfieriani, sia venuto a galla in concomitanza con l’evolversi della Rivoluzione, e sia rientrato con la presa di potere della borghesia. Questa, per Alfieri, sancirà l’inizio di una nuova tirannide, smascherando la “falsa libertà” citata nel trattato “Il Misogallo”.
Infatti, nel momento cruciale della produzione di Alfieri, il “titanismo” entrerà in attrito con una controtendenza: il “pessimismo”. Attraverso il Saul, consacrazione artistica di quest’uomo, emergerà questa crisi violenta. Saul vuole superare ogni limite, fino a scontrarsi contro Dio, ma quest’ ultimo rappresenta la sua stessa insuperabile natura umana. Nella tragedia, infatti, non è altro che la proiezione oscura della sua psiche, qualcosa che è dentro di lui.
Così, l’ultimo periodo della sua produzione è il periodo della serena consapevolezza di un uomo che si è arreso dopo aver combattuto per tutta la vita. Alfieri non ha vinto, ma è arso dentro di sè, consapevole di aver dato tutto ciò che poteva, prima di morire, in solitudine, a Firenze, 1803.
Sicuramente un pazzo tormentato da manie di grandezza, ma forse se fossimo tutti come lui, questo mondo cambierebbe. Se le nostre manie di grandezza puntassero ad elevarci spiritualmente e non soltanto ai beni terreni, anche noi cominceremmo ad ardere.
Corrado Imbriani