Il Sudan ha vietato, il 2 maggio scorso, le mutilazioni genitali femminili avviando l’accidentato percorso per un avvenire più prospero per i diritti umani. Nel frattempo le riforme proseguono e si è giunti adesso all’abolizione della Sharia: finalmente la legge coranica viene scardinata dopo trent’anni di inflessibile fanatismo dell’ex Presidente Omar al-Bashir.
Il Sudan mette da parte la Sharia
Il nuovo esecutivo di transizione, guidato dal primo ministro Abdalla Hamdok, ha attuato una serie di riforme fondamentali che stanno conducendo lentamente il Sudan verso una svolta storica a favore dei diritti umani e della democrazia. Proprio per questa sua politica rivoluzionaria Hamdok si è già trovato vittima di un attentato che, fortunatamente, non è andato a buon fine.
Nell’Islam la Sharia, meglio nota come legge coranica, è quel complesso di ferree regole che dettano la condotta morale e comportamentale dei fedeli. Per decenni è stata la guida legislativa e giuridica del Sudan, e soprattutto sotto l’ex presidente Omar al-Bashir è stata attuata tramite un rigidissimo fanatismo ideologico, che è costato la vita a donne, minoranze religiose e comunità omosessuale. Ma finalmente con il nuovo esecutivo molte delle norme contenute nella Sharia sono state smantellate.
Con la caduta della Sharia in Sudan si lascia spazio a chi ha adesso più tutele e diritti: le mutilazioni genitali femminili sono finalmente reato, le donne potranno portare i pantaloni senza essere frustate; è stato cancellato il reato di apostasia; è stato abolito il divieto per consumo di alcolici, l’obbligo per le donne di viaggiare con il benestare del capofamiglia, e si è arrivati alla cancellazione della pena capitale per gli omosessuali. Queste sono le più importanti riforme presentate dal ministro della Giustizia sudanese Nasredeen Abdulbari, il quale ha aggiunto che tali prescrizioni «garantiranno la libertà religiosa e l’uguaglianza dei cittadini, elemento doveroso per un Paese che ormai basa il suo orizzonte sullo stato di diritto».
Una svolta storica per il Sudan, incentivata sicuramente dalle molte campagne e proteste di attivisti e associazioni che da anni si battono per abolire la Sharia. Secondo una stima dell’Unicef, ad esempio, l’88% delle donne sudanesi tra i 15 e i 49 anni sono state sottoposte alla forma più invasiva della mutilazione genitale. «La maggior parte delle donne sudanesi subisce quella che l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiama circoncisione di tipo III, una forma estrema in cui vengono rimosse le labbra interne ed esterne, e di solito il clitoride», spiega Francesca Mancuso in un articolo pubblicato su Greenme. Martiri predilette della Sharia, oltre alle atroci mutilazioni digitali, le donne sono state finora fustigate pubblicamente per l’abbigliamento non idoneo, costrette a sposarsi ancora bambine, soggiogate all’autorità maschile. Ma adesso questa realtà di soprusi e abusi è oggetto di una demolizione storica.
Anche gli omosessuali sono meno vessati: il 16 luglio scorso «è stato emendato l’articolo 148 del codice penale, che ora non prevede più la pena di morte per il “reato” di omosessualità», e annullata anche la pena accessoria delle 100 frustate. Ma purtroppo «le relazioni consenzienti tra adulti dello stesso sesso restano tuttavia criminalizzate: fino a cinque anni di carcere in assenza di recidiva, fino a sette anni in caso di recidiva e l’ergastolo in caso di terza reiterazione del “reato”», si legge in un comunicato di Amnesty International.
Con l’abrogazione delle norme inserite nel codice penale che esplicavano i comandamenti della Sharia sono finalmente cancellate le leggi che negli ultimi decenni, dal 1983 ad oggi, hanno causato discriminazioni e persecuzioni etniche e religiose in Sudan. Anche i fedeli cristiani si sono trovati vittime di questi soprusi e tra i casi che hanno suscitato maggiore sgomento, anche a livello internazionale, c’è la condanna a morte per apostasia inflitta nel 2014 a Meriam Ishag Ibrahim, una giovane sudanese dichiaratasi cristiana.
L’inizio incoraggiante di un percorso difficile
Da adesso tutto questo in Sudan non sarà più possibile, almeno dal un punto di vista legale. Molti infatti sono euforici per questa svolta, ma altrettanti, soprattutto tra i gruppi di attivisti, avvertono che queste pratiche possano essere fin troppo radicate nella cultura e nella tradizione delle popolazioni del Sudan, e per questo non potranno essere cancellate semplicemente da una legge. Quest’ultima non può proteggere dai gruppi islamisti che avversano politicamente e culturalmente la svolta di Hamdok, e che controllano buona parte del territorio di uno Stato il cui governo centrale è ancora debole.
In Egitto, ad esempio, per quanto concerne le mutilazioni genitali femminili, vietate nel 2008 e rese crimine nel 2016, un sondaggio del governo, riportato in un articolo del Guardian, ha dichiarato che quasi nove donne su dieci lo hanno subito nonostante le nuove norme. «Altri attivisti veterani hanno messo in dubbio i tempi della ratifica, affermando che la pandemia di coronavirus li mette in svantaggio poiché non possono mobilitare campagne di sensibilizzazione o addestramento della polizia in un paese chiuso a chiave», prosegue l’articolo. Tuttavia la strada già intrapresa dal nuovo governo, nonostante sia ancora lunga e tortuosa, «ha suscitato comunque le speranze di una maggiore protezione delle libertà personali mentre il Sudan si avvia verso le elezioni democratiche previste per il 2022», si conclude.
Adesso che la legge consente margini superiori, il prossimo passo verso l’effettivo cammino democratico del Sudan, e forse il più difficoltoso e accidentato, è il rafforzamento di una scolarizzazione laica e la conseguente introduzione di nuove pratiche educative, che possa trasmettere, soprattutto alle generazioni future, la cultura del rispetto dei diritti umani inviolabili.
Martina Guadalti