L’assunto di base è semplice: individui consapevoli delle proprie emozioni contribuiscono a far maturare la società e a disintossicarla dagli stereotipi di virilità e maschilismo. Per questo, una corretta educazione sentimentale è utile tanto al bambino in fase di crescita quanto all’adulto incapace di esprimersi.
“Fai l’uomo”: cos’è la mascolinità tossica
Il termine mascolinità tossica è stato utilizzato per la prima volta da Shepherd Bliss tra gli anni ’80 e ’90: esso indica una visione dell’uomo malata, velenosa, pericolosa. In realtà l’intento di Bliss era quello di operare una netta separazione tra i comportamenti tenuti dagli uomini, in particolare tra quelli positivi e quelli negativi: tra i tratti che definiva come tossici per il maschio includeva l’evitare di far trasparire qualunque emozione, un trasporto esasperato per il predominio fisico, sessuale e intellettuale e la svalutazione sistematica delle donne, del loro corpo e del loro valore in quanto individui.
La mascolinità è un costrutto sociale, nessuno nasce con l’idea che uomini e donne siano diversi e che ogni differenza sessuale sia codificata a livello biologico nel cervello. Il cervello è plastico e cambia in base a quelle che sono le esperienze, ed è quindi innanzitutto un problema di educazione quello del maschilismo imperante. Siamo infatti immersi in una società patriarcale in cui i ruoli sono ben definiti in base al genere: le donne assertive e l’uomo forte, dominante. La mascolinità tossica altro non è che lo stereotipo della virilità, il fattore del dominio e dominante, essere la parte attiva e non passiva, non quella che subisce ma quella che fa subire. E del resto questo privilegio è comodo: sono pochi gli uomini che mettono in discussione il proprio potere. Basta pensare agli ultimi dissing: se le donne denunciano molestie, gli uomini si sentono in dovere di affermare “NOT ALL MEN“, spostando di fatto la conversazione dal disagio che tutte le donne hanno provato almeno una volta nella vita alla difesa di loro stessi.
Not all men. Non tutti ma molti, troppi. La società continua a perpetrare un concetto, unico e solo, di maschio, al quale è necessario omologarsi. Un cane che si morde la coda: gli stereotipi di genere fanno male a tutti e vanno abbattuti. Se la donna nel corso degli anni ha sempre cercato di ridefinire sé stessa e il proprio ruolo – non più solo moglie e madre -, gli uomini stanno arrancando per cercare di trovare una nuova posizione. Maschio non vuol dire più forza e vigore, ma anche una nuova forma di empatia, di partecipazione, di responsabilità. Ma ci vuole coraggio. E bisogna lavorare insieme, donne e uomini.
Maschilista e femminista: quando la similitudine inganna
I concetti di maschilismo e femminismo non sono sinonimi. Il primo si manifesta in contesti privati e sociali e si traduce in pratiche quotidiane che spesso sono offensive, repressive e violente, o semplicemente paternalistiche: gli uomini sono superiori alle donne. Il maschilismo stabilisce una gerarchia tra uomini e donne, non ha un fondamento storico perché non è un movimento sociale, basa le sue tesi su principi di carattere biologico, intellettuale, sociale e politico; è una forma di sessismo, una pratica che discrimina in base al genere sessuale e che come ogni discriminazione trasforma le differenze in pretese di superiorità.
Il femminismo, invece, è un movimento che nasce con l’accezione di difesa dei diritti delle donne e parità con gli uomini. A incarnarlo erano le suffragette, che hanno lottato per ottenere l’estensione del diritto di voto alle donne. A differenza di altri movimenti, il femminismo nasce con una forma originale, con contenuti e modalità sconosciuti e del tutto nuovi, ed è proprio a causa di questa sua originalità che è ancora circondato da numerosi equivoci. Le protagoniste della storia del femminismo non sono un soggetto politico inserito in un contesto sociale immutabile: il femminismo è un processo che in alcuni momenti storici sparisce per poi ritornare. Ha inoltre la capacità di adattarsi alle esigenze politiche e sociali e cambia in base al luogo geografico. Ha avuto pratiche e modi sempre differenti, a volte conflittuali, articolati e complessi e perciò si parla di femminismi al plurale, perché negli anni si sono sviluppate diverse correnti, altre forme di condivisione, di lotta e di inclusione (ed anche di esclusione, purtroppo).
I femminismi sono un prodotto storico, una evoluzione necessaria per la voce femminile che a un certo punto ha sentito la necessità di non essere più esclusa dalla vita sociale e politica, di non essere più succube del padre, del fratello, del marito, di modificare una certa relazione di potere. Quindi, per semplificare: il femminismo esiste per combattere il maschilismo.
Oggi è sicuramente molto più raro sentire la frase “le donne sono inferiori agli uomini”, ma si sta diffondendo a macchia d’olio uno spiccato anti-femminismo, che altro non è che l’ennesima forma di maschilismo, che chiede di superare il significato della parola e che attribuisce a quella parola significati che mai ha avuto. E lo spiega bene Chimamanda Ngozi Adichie nel suo libro “Dovremmo essere tutti femministi”: «C’è chi chiede: “Perché la parola “femminista”? Perché non dici semplicemente che credi nei diritti umani, o giù di lì?”. Perché non sarebbe onesto. Il femminismo ovviamente è legato al tema dei diritti umani, ma scegliere di usare un’espressione vaga come “diritti umani” vuol dire negare la specificità del problema del genere. Vorrebbe dire tacere che le donne sono state escluse per secoli. Vorrebbe dire negare che il problema del genere riguarda le donne, la condizione dell’essere umano donna, e non dell’essere umano in generale. Per centinaia di anni il mondo ha diviso gli esseri umani in due categorie, per poi escludere o opprimere uno dei due gruppi. È giusto che la soluzione al problema riconosca questo fatto».
Dietro il maschilismo non vi sono elaborazioni filosofiche, e chi contrappone i termini maschilismo e femminismo non fa altro che alimentare odio e sentimenti di avversione. Il maschilismo è solo un assunto dogmatico per cui l’uomo è superiore alla donna. E allora, come potremmo combattere questo pensiero?
Educazione sentimentale contro la violenza di genere
Ovidio sosteneva che la donna «ama essere presa con violenza». Freud, ancora, asseriva che «La donna è un maschio menomato, un sacco vuoto, un individuo castrato». Che la considerazione della donna, nei secoli, sia rimasta sostanzialmente identica, e cioè donna sottomessa all’uomo per natura, è abbastanza chiaro. A questo punto si sente la necessità di educare le nuove generazioni a rapporti che si basino su rispetto e uguaglianza, uscire dagli schemi classici e trovare nuovi metodi di conversazione, superare il concetto della donna vista e trattata come diabolica, stupida, necessariamente sottoposta.
Bisogna trovare una cura, evitare che questi comportamenti diventino cronici, attraverso una nuova forma di educazione sentimentale. E qualcuno ci ha provato. Il Consiglio regionale piemontese e l’Associazione Filosofia in Movimento nel 2018 hanno portato l’educazione sentimentale nelle scuole di tutto il Piemonte. Un progetto che prova a dare senso all’applicazione della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne del 2011. Con la convenzione si chiedeva agli Stati di introdurre l’educazione all’affettività nelle scuole: è stata applicata in tutta Europa, ma non in Grecia e in Italia.
Adesso, però, le regioni stanno provando a colmare il vuoto lasciato dal Parlamento. Non basta più invocare la prevenzione, adesso è il momento di insegnare ai giovani, ragazzi e ragazze, un’altra educazione civica, che permetterà loro di capire, conoscere e comprendere le emozioni, e di imparare a parlare dei propri sentimenti. L’educazione sentimentale ha come obiettivo quello di smontare la visione inflessibile dei ruoli sessuali, e tutto questo non può prescindere da una valorizzazione del contributo femminile nella storia, nella politica, nelle arti. Non si parla solo di parità: tutti gli stereotipi verranno abbattuti se si alimentano sentimenti di affetto, riconoscenza e condivisione.
Valentina Cimino