Il 2 di agosto nel silenzio mediatico (quasi) assoluto della stagione estiva, il parlamento italiano ha approvato a colpi di fiducia il Ddl Concorrenza, ovvero una legge con la quale lo Stato si ripromette di incentivare la sacrosanta guerra dei prezzi su cui si basa la nostra economia capitalistica.
I mercati regolamentati, o meglio, deregolamentati dal provvedimento sono molteplici e fra questi vi è anche quello delle opere d’arte, sicché qualche nostalgica nicchia di intellettuali (probabilmente post-comunisti) ha rivolto alcune tiepide proteste alla prima carica del nostro paese, il Presidente Mattarella, invitandolo ad opporsi alla legge per salvaguardare il patrimonio artistico italiano.
Gli artefici del Ddl infatti, circa due anni fa (l’iter parte nel 2015), consigliati da gruppi d’interesse quali il Progetto Apollo ed altre associazioni di mercanti d’arte (Associazione nazionale Case d’Asta, Christie’s, Sotheby’s, Associazione nazionale delle Gallerie d’Arte Moderna), scoprivano che la legislazione del nostro paese prevede (prevedeva) il più alto numero di controlli in Europa qualora un’opera d’arte allocata in Italia debba uscire dal territorio nazionale, per essere venduta o collocata in una mostra.
La solita lenta burocrazia italiana impediva che le opere fossero considerate al pari di spazzolini, o, che so, dentifrici, e così mercanti e case d’asta studiavano un modo per aggirare l’asfissiante leviatano.
Due anni di attesa e, come si è detto, la soluzione è stata trovata. Supponiamo che voi foste i possessori di una qualsiasi opera d’arte di modesto livello (non certo la Gioconda, ovvio), e che voleste venderla in Giappone perché proprio lì il più famoso cantante locale è in cima alle hit parade con un pezzo che cita il vostro bel pittore. I collezionisti giapponesi pagano, e voi volete fare un bell’affare, subito, prima che la popolarità del vostro dipinto vada scemando inevitabilmente.
Bene, con la passata lentezza burocratica italica voi non avreste mai concluso l’affare, perché prima di uscire dal territorio italiano la vostra opera avrebbe dovuto superare un’accurata trafila di esami del ministero dei beni culturali e, se anche la sua vendita fosse stata avallata, questa sarebbe stata possibile troppo tardi.
Oggi invece il vostro affare è salvo. Come dovrete agire? Semplice, i controlli reali (faccia a faccia, con commissione) sono stati eliminati, vi basterà redarre un’autocertificazione che attesti che il valore dell’opera è inferiore ai 13.500 euro e il gioco è fatto. La cosa sorprendentemente conveniente di questa modalità di controllo è che il controllo non esisterà affatto.
Posto che voi vogliate autocertificare qualsiasi opera, anche avente maggior valore rispetto alla cifra pattuita, ed è chiaro che voi non siate gli unici in Italia a volerlo fare (ma non disperate: l’unione fa la forza), ecco, proprio il fatto che verosimilmente un’inaudita quantità di autocertificazioni dovrà essere esaminata dal ministero, potrebbe far sì che la vostra opera venga erroneamente (o volontariamente, se avete amici) sottostimata!
Ma non è tutto: il Ddl Concorrenza ha pensato anche ad innalzare il limite temporale oltre il quale un’opera appartenente a un privato viene considerata di rilevanza speciale per il patrimonio artistico italiano. Oggi le opere realizzate fino a 70 anni fa potranno circolare agevolmente, mentre prima ciò era permesso solamente a quelle realizzate fino a 50 anni fa. Tutte le opere realizzate nel periodo della ricostruzione, che concorrono forse più di altre a testimoniare la storia sulla quale si fonda la costituzione italiana, sono quindi nuovamente sul mercato.
Viene inoltre esteso il periodo in cui è valida la licenza di esportazione di beni culturali verso paesi extraeuropei, e ciò non sarebbe poi una notizia così allarmante se non fosse che i tre provvedimenti considerati complessivamente formano un unico, chiaro, invito: esportate e vendete la nostra arte.
D’altronde non è la prima volta che il mercato impoverisce territori e tradizioni decontestualizzando opere e rendendole di fatto avulse dalla propria storia: avete mai sentito parlare delle mostre di street art? Pezzi di muro sottratti senza permesso ai loro quartieri, spesso periferici, per venire esposti nei centri delle metropoli di tutto il mondo.
L’artista di strada Blu si è reso protagonista lo scorso anno di una performance artistica sorprendente, proprio in risposta a questa usanza. Comparso suo malgrado nei cartelloni di una mostra di street art a Bologna, ha deciso di cancellare volontariamente ogni sua opera nella città, restituendo ai muri un grigio monotono. A suo avviso, se esposte in un museo, le sue opere sarebbero comunque morte in quei non-luoghi che l’antropologo Marc Augé ha minuziosamente descritto nella loro perfetta somiglianza ad aeroporti, centri commerciali e tutti gli altri edifici privi di storia del commercio post-moderno.
La soluzione che invece è subito venuta in mente al sottoscritto per difendere l’arte dei nostri territori e restituirle un posto nella nostra quotidianità è ben lontana dalla collocazione in mostre internazionali gestite da direttori-manager ma già viene attuata da tempo nel nostro paese, e meriterebbe a mio avviso di essere incentivata.
Avete presente quando nel talk-show di turno viene mandato in onda il servizio “indignante” che mette in bella mostra lo scempio delle nostre milioni di opere d’arte abbandonate alla rovina del tempo? Di fronte a servizi di questo tipo dovremmo esultare colmi di gioia. Parchi archeologici recintati, teatri dormienti, resti di città sepolte, e perché no, anche dipinti in soffitta, installazioni arrugginite. Ciò che avrebbe tutto per essere meta turistica mondiale e che invece è ancora lì, a disposizione della comunità locale. Non ci va quasi nessuno e invecchia col tempo. Lasciamo che la rovina mantenga fra di noi queste opere e quando, fra mille anni, saranno talmente putride da non avere più valore pensiamo bene di creare qualcos’altro.
Valerio Santori
(twitter: @santo_santori)