La tragedia di Manchester – in cui 22 persone, tra cui molti ragazzini, hanno perso la vita – ha riportato alla ribalta il dibattito sul rapporto tra immigrazione e terrorismo e sulla difficile integrazione dei migranti. Un dibattito che era stato già animato dalla Marcia per l’accoglienza svoltasi lo scorso sabato a Milano, ispirata a quella avvenuta pochi mesi fa a Barcellona e criticata aspramente in particolar modo dalla destra.
Sulla questione si era espresso molto duramente anche il direttore del TG La7 Enrico Mentana, che sulla sua pagina Facebook aveva lanciato un attacco a tutti i commenti offensivi sulla manifestazione di Milano. «Si può non essere d’accordo in nulla con le ragioni di chi marcia, ma perché tutto questo veleno? Perché un odio così forte verso l’idea di accoglienza?», l’opinione del giornalista.
Come di consueto, insomma, l’opinione pubblica è divisa in due schieramenti antitetici e contrastanti: da una parte i fautori del “mandiamoli a casa loro”, quelli per cui l’immigrazione è sinonimo di terrorismo e per i quali, quindi, la nostra sicurezza non può prescindere da una chiusura delle frontiere; dall’altra parte i “no borders”, secondo cui il diritto alla libera circolazione degli uomini resta imprescindibile e per i quali gli attacchi alla nostra civiltà vanno combattuti con quelli che sono i cardini, appunto, della nostra civiltà, come pace, uguaglianza, libertà e accoglienza.
Il problema, però, è che entrambe le correnti di pensiero assomigliano molto di più a tifoserie che, ferme sulle loro posizioni, insultano i loro oppositori senza mettere in discussione prima di tutto le proprie idee.
Perché se è innegabile che una chiusura delle frontiere sarebbe dannosa da un punto di vista economico, orribile da un punto di vista umano e sostanzialmente inutile nell’ottica di una lotta al terrorismo, è anche vero che una politica fatta di sola accoglienza non basta. Deve essere infatti, l’accoglienza, il primo passo verso l’obiettivo finale che non può non essere la completa integrazione degli immigrati.
Per “integrazione”, chi scrive intende quel processo attraverso il quale un individuo che arriva in Italia viene a contatto con la nostra cultura e la aggiunge al proprio bagaglio personale, nel pieno rispetto delle leggi italiane ma anche degli usi e delle tradizioni del proprio paese d’origine. Ma completa integrazione implica anche l’inclusione nei nostri meccanismi sociali: apprendere la lingua, poter studiare e avere uno sbocco nel mondo del lavoro.
La definizione che la Treccani dà di lavoro, tra le altre, è: “Occupazione retribuita e considerata come mezzo di sostentamento, e quindi esercizio di un mestiere, di un’arte, di una professione”; niente a che vedere quindi con il “lavoro volontario” e quindi non retribuito incluso nel decreto Minniti-Orlando recentemente diventato legge.
Sono tanti i lavori, in particolar modo manuali, in cui c’è forte bisogno di manodopera, e sono lavori che tanti migranti svolgerebbero molto volentieri pur di garantirsi un futuro sereno. Per permettere ciò c’è però bisogno di stabilire delle regole chiare per il mercato del lavoro, in modo da evitare fenomeni come il caporalato o il ribasso del costo del lavoro.
Di questo passo, il rischio che i conflitti sociali esplodano in una sorta di “guerra tra poveri” è molto alto, e la presenza di forze politiche irresponsabili che vedono nell’immigrazione il capro espiatorio di qualunque problema non fa che peggiorare la situazione. Come se i flussi migratori (aumentati esponenzialmente intorno al 2010/2011) fossero la causa di oltre vent’anni di politiche sociali fallimentari.
L’accoglienza è un valore che non può essere messo in discussione, se ci si vuole ancora definire una società civile e democratica. Sono, piuttosto, le eventuali criticità presentate dal momento storico a dover essere affrontate e risolte, in maniera efficace e non dando adito a isterismi e populismi di crescere. Forse, sarebbe il caso che qualcuno iniziasse a farlo.
Simone Martuscelli