Nessun colore, nessuna parola, nessuna pietà – Samuel Beckett è stato un ospite decisamente esigente quando ha servito in tavola il cortometraggio Film.
Siamo nel 1964, a Beckett non occorrono colori, suoni, minuti per edificare l’idea che ha in mente: sono sufficienti un attore protagonista, poche comparse, qualche animale domestico, un breve tragitto e una piccola stanza. La premessa di questa idea è semplice: “essere è essere percepiti”, vale a dire che la percezione di sé (o del sé) è l’unica dimensione entro cui può snodarsi il concetto lato di esistenza – oltre il percepibile non c’è nulla.
L’anonimo protagonista di Film, che crede di poter fuggire qualsiasi sguardo e dunque l’esistenza stessa, è costretto infine a fare i conti con la realtà più ovvia e per lui più terribile: pur celandosi a occhi estranei, non esiste possibilità alcuna di negarsi al proprio sguardo – non essere è dunque impossibile.
Film di Beckett ai tempi del 2.0
Riletto in chiave odierna, Film assume i contorti marcati del paradosso: se difatti il cortometraggio mette in scena la tragedia di chi non vuole avere occhi su di sé, la nostra società inscena una tragedia dal fine opposto, dove chiunque sembra essere alla disperata ricerca di uno sguardo che lo segua e ne certifichi l’esistenza.
Considerando questa prospettiva, l’indiscreto e angoscioso Occhio che segue il protagonista, indiscusso Oggetto della vista, è oggi lo spettatore non pagante più ambito: che siano reali o virtuali, umani o robotici, gli sguardi paiono essere sempre graditi.
Tuttavia, l’aspetto paradossale della rilettura del cortometraggio di Beckett non si arresta a questo primo e superficiale tassello. Se è difatti vero che la nostra società educa a essere bendisposti nei riguardi dell’Occhio, è altrettanto vero che la stessa rischia di svuotarlo completamente del significato riproposto in Film.
Lo sguardo di cui si ricercano attenzione e consensi certifica l’esistenza dell’Oggetto solo nella sua veste più superficiale, non è in grado di coglierne l’essenza: non riesce a percepirlo, può solo “vederlo” – di conseguenza, non può dargli corpo.
Essere o non essere, e se non fosse più questo il problema?
I social network, e più in generale la società dello “show, don’t tell”, educano giorno dopo giorno non solo alla condivisione costante, ma anche all’esposizione perenne. Una vetrina su cui i riflettori sono accesi ventiquattro ore su ventiquattro e dove non è ammessa l’ipotesi di negarsi allo sguardo altrui – che osserva, valuta, infine giudica: un circolo vizioso che va avanti a oltranza.
In un simile contesto, così opprimente e inarrestabile, il soggetto rischia di perdere pezzi di sé lungo il tragitto. In contraddizione al protagonista fittizio di Film, l’Oggetto reale della vita di tutti i giorni smarrisce lo sguardo su se stesso e colma la mancanza con tanti occhi anonimi, le cui superficiali capacità sensoriali non hanno interesse alcuno a legittimare qualcosa che non sia l’apparenza, grande protagonista dei riflettori odierni.
In tale concezione, “essere è essere percepiti” è una massima spogliata finanche del significato meramente letterale: il significato stesso del verbo “percepire” appare svilito perché usato alla stregua di un verbo come “vedere” – ben lontano dall’essergli sinonimo.
“Essere”, in questo contesto, vestirà il significato di “essere apparsi” – non a se stessi, ma agli altri. L’Occhio che inchioda il protagonista di Film corre quindi il rischio di anestetizzarsi, contraddicendo con triste ironia la sceneggiatura di Beckett. Si verifica allora un sovvertimento del senso di realtà: la società della sovraesposizione non solo annulla l’essere, ma lo priva anche dello sguardo del sé su di sé.
Il rischio più elevato di questa privazione è l’alienazione che ne scaturisce: un individuo insensibile a se stesso – vale a dire incapace di percepirsi – rischia di trascorrere la propria esistenza nell’oblio dell’ignoranza, dove il più grande sconosciuto è proprio il se stesso reale, quello non modellato sul giudizio altrui, costruito sull’inconsistente apparenza.
È possibile, allora, concludere in maniera provocatoria (nonché azzardata) che se Beckett avesse sceneggiato oggi Film, avrebbe forse inscenato la tragedia opposta: non un protagonista tormentato dall’idea che qualcuno o qualcosa ne certificasse l’esistenza, ma un protagonista terrorizzato dalla prospettiva di “non essere” affatto – e allora eccolo, quel protagonista, tastarsi il polso non temendone il battito e la corporeità, ma temendone l’assoluta inesistenza.
Rosa Ciglio