A un anno dall’inizio della presidenza di Donald Trump ci troviamo davanti a un mondo diviso. Da una parte i suoi sostenitori, sempre meno secondo le stime che lo indicano come il presidente americano più impopolare della storia, dall’altra i suoi oppositori i quali, nonostante la recente dichiarazione del dottor Ronny Jackson che afferma la stabilità mentale di Trump, costruiscono una narrazione basata sulla presunta incapacità a governare del Presidente.
D’altronde, c’è qualcosa su cui le due parti si trovano d’accordo: la linea seguita da Trump in merito alla politica estera, che è senza dubbio quella di «una maggiore sovranità nazionale, in contrasto alla visione globalista» (Andrew Spannaus, ISPI Fact Checking & Focus 19/01/2018). Secondo Germano Dottori, Cultore di Studi Strategici presso la LUISS-Guido Carli di Roma, «l’obiettivo […] è restituire l’America alla sua originaria dimensione repubblicana, ponendo fine alla lunga stagione imperiale coincisa con la Guerra Fredda».
Il riavvicinamento degli Stati Uniti di Trump alla Russia di Putin
Partiamo dal principio.
La presidenza di Donald Trump inizia con la polemica sulla possibile interferenza della Russia alle elezioni del 2016, basata soprattutto su una serie di relazioni sospette avvenute tra il team elettorale di Trump e la Russia. Ad oggi proseguono le investigazioni parallele del Dipartimento di Giustizia americano e delle due Camere del Congresso riguardo alle presunte collusioni tra i funzionari vicini a Trump e la Russia, definite nel loro complesso col nome di Russiagate.
L’indagine del procuratore speciale Robert Mueller, che ha assunto il caso nel maggio 2017, ha coinvolto una serie di individui legati a Trump, alcuni dei quali sono stati condannati per falsa testimonianza – tra questi troviamo Michael Flynn (ex-Consigliere della Sicurezza Nazionale, avrebbe mentito sui suoi rapporti con l’ambasciatore russo Sergei Kislyak) e George Papadopoulos (ex-consigliere per la campagna elettorale di Trump, arrestato a luglio).
Già nel giugno 2017, in seguito al licenziamento sospetto del direttore dell’FBI James Comey (il quale ha successivamente dichiarato di aver subito pressioni dal Presidente affinché smettesse di indagare su Flynn), l’inchiesta era giunta al punto di indagare il presidente Trump in persona per intralcio alla giustizia. Il Presidente ha definito l’accusa nient’altro che una “caccia alle streghe”.
Alcuni giorni fa il New York Times ha riportato che nel giugno del 2017 Trump avrebbe provato a licenziare Mueller, adducendo una serie di conflitti d’interesse, per poi rinunciare in seguito all’opposizione del legale della Casa Bianca Donald McGahn.
L’intelligence americana ha concluso con grande sicurezza che i russi hanno interferito nella campagna elettorale americana hackerando il server del Partito Democratico e diffondendo fake news attraverso i social per danneggiare la corsa di Clinton.
La questione della campagna di diffamazione – tremila annunci commissionati da account pro-Cremlino che hanno raggiunto 126 milioni di americani – portata a termine attraverso Facebook è centrale all’interno dell’indagine, nonostante l’azienda abbia recentemente dichiarato al Congresso di «non essere in grado di dimostrare o confutare le accuse di possibili collusioni» (Wired, 26/01/2018) tra la Russia e Trump.
Tuttavia l’inchiesta Trump-Russia non si ferma qui.
Oltre allo scandalo delle elezioni e degli attacchi informatici russi, gran parte dell’indagine mira a svelare le relazioni finanziarie tra i dipendenti di Trump e tutta una serie di magnati e oligarchi vicini alla presidenza di Putin.
Queste relazioni hanno avuto ricadute importanti sulla linea adottata da Trump in merito a questioni di ordine globale, come il conflitto in Ucraina o la presenza statunitense in Medio Oriente, dove ormai la Russia e la Turchia hanno consolidato il proprio intervento come mediatori del conflitto siriano a scapito degli americani.
Venerdì scorso il Dipartimento del Tesoro statunitense ha imposto nuove sanzioni finanziarie alla Russia, come risultato della crisi in Ucraina che dura ormai da tre anni. Tra le prove che hanno incriminato Michael Flynn compare la trascrizione di una sua conversazione con l’ambasciatore russo, col quale avrebbe discusso un rilassamento delle sanzioni ancor prima che Trump fosse ufficialmente eletto.
Il Congresso non sembra condividere questa linea di distensione, anzi, risale al 22 dicembre 2017 la notizia riportata dal Washington Post che l’attività di sottomarini russi nell’Atlantico Settentrionale ha messo in guardia la NATO, soprattutto in relazione alla possibilità che nel mirino dei russi ci siano i cavi sottomarini che collegano Europa e Nord America.
La situazione di stallo tra Russia e Stati Uniti
È chiaro che, al momento, la questione principale delle tensioni tra Russia e Stati Uniti è in una situazione di stallo.
Da una parte il Congresso che considera Iran, Corea del Nord e Russia una minaccia (soprattutto dal punto di vista militare) alla sicurezza nazionale, secondo le dichiarazioni della deputata della Camera Elise Stefanik, ed è intenzionato a mantenere il pugno duro con le sanzioni alla Russia.
Dall’altra parte la Casa Bianca, la cui azione è limitata dai problemi sorti dalle indagini del Congresso riguardo alla relazione del Presidente con il governo russo: a luglio 2017, il Congresso ha varato altre sanzioni ponendo il Presidente davanti alla decisione di imporre il veto o meno. Alla fine l’amministrazione Trump ha ceduto, ma la situazione rimarrà tesa finché non sarà possibile chiarire quali siano gli interessi personali di Donald Trump in Russia e la relazione di questi ultimi con le politiche adottate dalla Casa Bianca.
La distensione dei rapporti con la Russia voluta da Trump sembra essere momentaneamente congelata, mentre aumentano le tensioni con altri Paesi.
La linea nei confronti dell’Iran sembra abbastanza chiara: il consolidamento delle relazioni con gli storici alleati Arabia Saudita e Israele e la chiusura del dialogo con Teheran sono chiari segni di una svolta decisamente anti-iraniana, che chiuderebbe la parentesi Obama, con relativo smantellamento degli accordi sul nucleare, posizioni sulle quali la Casa Bianca è stata tuttavia costretta a fare un passo indietro.
Al contrario la Corea del Nord, con i continui scambi di accuse e offese tra Trump e Kim Jong-un, rimane un’incognita; la mancata risoluzione di questa crisi, percepita come un pericolo per la sicurezza nazionale della Corea del Sud, sembra aver incrinato i rapporti tra quest’ultima e gli Stati Uniti, concedendo a Pyongyang il regalo di vedere un’impennata di sentimenti anti-americani in tutta la regione e alla Russia di offrirsi come mediatore tra quest’ultima e Washington.
Quale guerra fredda?
In conclusione sembra che l’unica vera guerra fredda in atto sia quella interna al governo statunitense, diviso tra un Congresso ostile alla Casa Bianca e uno dei presidenti più controversi degli ultimi anni, le cui reazioni impulsive alle questioni di politica internazionale sembrano tutt’altro che espressione di un strategia coerente.
Secondo gli esperti, gli Stati Uniti sembrano aver rinunciato all’americanizzazione del globo: pur rimanendo la prima potenza globale, il loro raggio d’azione si è senza alcun dubbio ridimensionato, riducendo l’impegno internazionale statunitense e lasciando maggiore spazio ad attori come la Russia e la Cina.
Claudia Tatangelo