Il 26 ottobre 2020, durante manifestazioni di protesta contro le misure prese per contrastare la pandemia da Covid-19, si sono verificati distruzione di negozi e saccheggi nel Centro di Torino. Dopo mesi di indagini, nel mese di Marzo si sono verificati i primi arresti che hanno visto coinvolti anche soggetti migranti o di seconda generazione. Le solite accuse si sono accompagnate alla consueta repressione. Pertanto abbiamo intervistato Ayoub Moussaid, Portavoce della “Rete 21 marzo – mano nella mano contro il razzismo“, per provare a fare il punto della situazione, scevri da qualsiasi pregiudizio o semplificazione.
Come è nata la “Rete 21 marzo – mano nella mano contro il razzismo”?
Come Rete, e prima come Comitato, organizziamo da sempre ogni anno una manifestazione per il 21 marzo, la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, da cui prendiamo il nome. In generale, anche durante il resto dell’anno, ci impegniamo con varie iniziative di sensibilizzazione per contrastare ogni tipo di discriminazione, con particolare attenzione a quella razziale: iniziative di piazza, incontri pubblici, partecipazione ad iniziative con altri gruppi affini, conferenze e dibattiti. Alcuni anni fa ci siamo occupati della battaglia per l’approvazione della legge sulla cittadinanza dei minori stranieri (ius soli e ius culturae) che purtroppo non andata a buon fine, ma vorremmo riprendere questo tema poiché riteniamo fondamentale affrontarlo per combattere una grave forma di discriminazione. Inoltre diffondiamo contenuti sul tema attraverso i nostri social (Facebook e Instagram).
Secondo la vostra personale esperienza in materia, cosa potrebbe aver spinto dei giovani soggetti migranti o di seconda generazione alla distruzione e al saccheggio di negozi?
La realtà è sempre molto più complessa della rappresentazione sommaria che ne possono fare spesso i media che, purtroppo, in questo modo rafforzano i pregiudizi e aumentano la sensazione di rabbia dei residenti. Povertà, abbandono, mancanza di lavoro e di opportunità, discriminazione a vari livelli, esclusione sociale, senso di mancanza di futuro e rabbia per le disparità…tante possono essere le cause di comportamenti di questo tipo. Questo non significa giustificare i fatti, però sono segnali che dimostrano la necessità di altri tipi di interventi da parte delle istituzioni. Da una parte, infatti, troviamo un razzismo sistemico che marginalizza, agisce con violenza e isola gruppi già discriminati e dall’altra vi sono le istituzioni che sono assenti o, se intervengono, lo fanno in modo poco utile per la popolazione: azioni securitarie e violente che sono inutili, se non dannose, come arresti domiciliari, pene detentive o interventi delle forze dell’ordine, oppure progetti che spesso non sono efficaci al 100% e non riescono ad avere un impatto reale e concreto.
Dagli arresti risulta che molti soggetti migranti vivessero nelle periferie di Torino. In quali condizioni versano le periferie della città?
Conosciamo meglio la realtà di alcune periferie a nord di Torino. I problemi sono tanti, oltre a quelli già detti, ad esempio, il tema della casa è molto sentito, insieme al problema della disoccupazione. Però sono anche zone molto vive, piene di energie che se ben canalizzate possono produrre cambiamenti positivi. La popolazione è ricca di risorse tramite le quali poter costruire un ambiente di collaborazione collettiva incentrato sulla solidarietà all’interno dei quartieri, ma le possibilità di emancipazione sono ridotte dalla mancanza di supporto economico, dall’abbandono dei luoghi e delle persone da parte delle istituzioni e dalla ghettizzazione dei quartieri popolari, che rimangono così sempre più isolati. Questo crea un ambiente caratterizzato dalla mancanza di opportunità, poiché queste vengono tolte dalla nascita a ragazzi e ragazze che devono fare i conti con questa disparità incentivata dalle istituzioni. Un altro esempio di gestione miope e discriminatoria è quella che coinvolge i cosiddetti campi Rom, soggetti a continui sgomberi, sempre più ghettizzati e allontanati dalle istituzioni e dall’accesso al welfare.
Tali condizioni delle periferie potrebbero aver influito sulla formazione educativa dei giovani migranti in questione?
La condizione di ghettizzazione in cui vengono spinti alcuni di questi luoghi si riversa anche sulle scuole. Nei quartieri periferici torinesi è molto spesso difficile trovare strutture scolastiche adeguate e aggiornate, la qualità dell’istruzione è poco tutelata e il compito educativo della scuola viene meno, lasciando studenti e studentesse privi dei mezzi di emancipazione che l’ambiente scolastico dovrebbe fornire. Inoltre, un problema a cui l’amministrazione della città ci sottopone è quello dei frequenti e continui sgomberi, che colpiscono in larghissima parte famiglie con origini straniere e persone con background migratorio. Chi subisce lo sgombero viene spostato in periferia, un luogo che viene ulteriormente ghettizzato, e il peso di questa condizione grava sulle spalle delle scuole, che non sono in grado di affrontare la situazione.
Oggigiorno Torino è una città multietnica. Quali sono le prospettive di futuro dei giovani migranti o delle seconde generazioni che vivono in città?
Per noi è importante combattere le discriminazioni affinché tutti possano avere le stesse opportunità, che siano italiani da generazioni oppure italiani acquisiti. Per questo la legge sulla cittadinanza è un obiettivo importante da raggiungere: tutti devono partire avendo parità di diritti. I giovani sono il futuro perciò devono poter contare e la loro diversità culturale non può che essere un qualcosa in più, una marcia in più, non sicuramente un elemento penalizzante. Per questo ci auguriamo che la situazione migliori per garantire la possibilità di scelta e varie prospettive rispetto al futuro: un diritto allo studio realmente tutelato, un lavoro gratificante che garantisca diritti, sicurezza e un salario adeguato, una crescita collettiva e solidale dei quartieri, il definitivo riconoscimento di tutti i diritti ad oggi negati.
Quali sono le vostre proposte per provare a migliorare le condizioni in cui vivono soggetti migranti o di seconda generazione?
Crediamo nell’impegno sociale e civile, per cui chiediamo ai/alle giovani tutti/e, di qualsiasi provenienza, di metterci la faccia, di esserci in piazza e di battersi per i loro diritti. Le conquiste sociali sono sempre avvenute attraverso lotte, bisogna non abbattersi di fronte ad una sconfitta e insistere. La lotta dà essa stessa un senso diverso alla propria vita, fa incontrare persone che vivono in una situazione simile, così da non sentirsi più soli. E’ una battaglia culturale: siamo tutte persone che vivono su questa Terra in cerca di un presente e di un futuro; si tratta di abbattere barriere e pregiudizi e garantire gli stessi diritti per tutti/e. Inoltre ci auguriamo maggiore impegno istituzionale che abbia come obiettivo un vero cambiamento al fine di migliorare la vita delle persone che vivono ai margini della società. Abbiamo bisogno di avvicinare la periferia al centro e viceversa per permettere a tutte e tutti di sentirsi realmente parte della città e realmente cittadini.
Questa vicenda di Torino, come presumibilmente quella verificatasi alla periferia di Milano, costituisce un segnale d’allarme sulle periferie delle nostre città e sulla popolazione giovanile multietnica che le abita. Ma come si evince dall’intervista, uno Stato che tratta i problemi sociali – e segnatamente la marginalità giovanile – come una questione di ordine pubblico e affida unicamente alle forze dell’ordine la gestione delle periferie, finirà per farsi trascinare in una spirale repressiva che non solo non risolverà il problema alla base, ma piuttosto finirà per aggravarlo.
Gabriele Caruso