In Italia il tema della legalità, intesa come «rispetto e pratica delle leggi», è sempre stato al centro della riflessione pubblica e politica.

Negli ultimi mesi, in particolare, il “ripristino della legalità” è stato il grido di battaglia che ha guidato le azioni di governo per contrastare situazioni di dissenso e irregolarità. Da alcuni recenti episodi di cronaca è emersa l’esistenza di importanti conflitti sociali che scuotono e dividono le nostre città, evidenziando la tensione tra rivendicazioni dei diritti sociali – il diritto allo spazio pubblico, alla qualità della vita, alla casa – e le azioni repressive delle istituzioni.

I decreti Minniti sulle “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e sulle “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale” ben sintetizzano la linea securitaria adottata dal governo per relazionarsi alle situazioni extra-ordinarie che caratterizzano alcune realtà della nostra società. Decreti che, ammantati di “urgenza” e inevitabilità, pretendono di fronteggiare il disagio, l’emarginazione e il conflitto sociale, riducendoli a problemi legati alla sicurezza e all’ordine pubblico e provocando un’allarmante compressione dei diritti, soprattutto dei soggetti più fragili della popolazione: immigrati, poveri, senza tetto, tossicodipendenti.

Si collocano su questa prospettiva rigorosamente “legalitaria” gli episodi di scontro tra forze dell’ordine e “no Tap” in Puglia, l’irruzione della Celere nella Biblioteca di Discipline Umanistiche a Bologna, o il più recente sgombero di Piazza Indipendenza a Roma e quelli delle realtà autogestite di Labàs e Crash a Bologna. A ogni avvenimento di questo genere, i commenti dell’opinione pubblica e delle forze politiche si ripetono ciclicamente. Lo stillicidio della legalità regna sovrano.

Eppure, la realtà ci suggerisce di andare oltre alla superficiale dicotomia legale/illegale. Prima di tutto perché, essendo in gioco la dignità e i diritti sociali delle persone, azioni esclusivamente “emergenziali” non possono che esasperare una situazione già drammatica, ma anche perché non sempre la dimensione di non regolarità è ascrivibile alla mera criminalità, ancor meno quando ci si riferisce a realtà autogestite e solidali che vanno a colmare l’assenza dello stato e costruiscono aggregazione e collettività nel vuoto lasciato dalla politica.

È questo il caso dell’ex-caserma Masini di Bologna, occupata dal 2012 dal collettivo Làbas e sgomberata lo scorso 8 agosto. Uno spazio di 9 mila mq, lasciato al degrado e all’abbandono per vent’anni e recuperato dall’attivismo di decine di volontari, che in poco tempo hanno dato vita a una miriade di attività autogestite e autofinanziate, tra cui un orto biologico, un mercato settimanale, una pizzeria e una birreria, un’aula studio, una scuola di italiano per stranieri e un progetto di “Accoglienza degna”, che in un anno ha ospitato decine di migranti e persone in difficoltà.

Basta dare uno sguardo ai dati relativi alla distribuzione degli immobili nel nostro Paese per capire che la questione delle occupazioni abusive non può essere risolta esclusivamente con sgomberi e minacce. Secondo l’Agenzia delle Entrate, gli immobili «a disposizione» (ovvero vuoti) sono 6 milioni e 623 mila (il 10,4% del totale), mentre le abitazioni di proprietà non utilizzate sono ben 5,71 milioni, circa il doppio di quelle affittate.

legalità diritti
Fonte: Next Quotidiano da La Stampa (6 settembre 2017)

In questa metropoli disabitata è facile che si insinuino bande criminali e racket mafiosi, che approfittano del vuoto amministrativo per condurre i loro illeciti sui più bisognosi, ricattati e minacciati in cambio di un luogo dove dormire. Secondo la Federcasa, nel 2016 gli alloggi dell’ERP (Edilizia residenziale pubblica) occupati erano circa 48 mila, su di un totale di oltre 750 mila, di cui 9 mila occupati con la forza.

Se, quindi, da un lato è la cittadinanza attiva a percorrere strade fuori dalla legalità per colmare l’assenza della politica e ripristinare i diritti sociali, dall’altro è invece la criminalità organizzata a inserirsi illecitamente dove le istituzioni non ci sono, riproducendo la logica della rendita sulla pelle dei più deboli in una dimensione para-statale. Qui, la grande sfida della politica è ripristinare la legalità non ricorrendo semplicemente all’uso di strumenti coercitivi, ma attraverso un’assunzione di responsabilità in grado di riconoscere questa complessità: trovando nuove soluzioni abitative, riducendo il costo degli affitti, promuovendo l’housing sociale, recuperando gli edifici in abbandono, riconoscendo il valore dei movimenti e dei comitati di lotta per la casa. Se, al contrario, l’ordine pubblico e la sicurezza restano gli unici due arché interpretativi della complessità sociale, il rischio è quello di “fare deserto e chiamarlo legalità”.

La città, scrisse una volta il celebre sociologo urbano Robert Park, è «il tentativo più coerente e nel complesso più riuscito da parte dell’uomo di plasmare il mondo in cui vive in funzione dei propri desideri. E tuttavia, se da una parte la città è il mondo che l’uomo ha creato, dall’altra è anche il mondo in cui, da quel momento in poi, è stato condannato a vivere. Così, indirettamente e senza rendersi pienamente conto della natura del suo intervento, l’uomo costruendo la città ha ricostruito sé stesso».

Se ha ragione Park, la domanda sul tipo di città che vogliamo non può allora essere separata da altre domande, sul tipo di persone che vogliamo essere, sui legami sociali che cerchiamo di stabilire, sui rapporti con l’ambiente naturale che coltiviamo, lo stile di vita che desideriamo e i valori estetici che perseguiamo. Il diritto alla città, quindi, è molto più che un diritto di accesso individuale o di gruppo alle risorse urbane: è il diritto a cambiare e reinventare la città in base alle nostre esigenze. Se questo è vero, allora si dovrebbe imporre una riflessione che va ben oltre il concetto di legalità, sfociando nella dimensione etica di riconquista della giustizia sociale, laddove questa sia stata sostituita dalla retorica della «legge è legge».

Una riconquista che deve essere rilanciata nel dibattito pubblico, insieme alla promozione, alla tutela e all’articolazione dei diritti di tutti, ragionando e muovendosi, se necessario, oltre i commi pre-costituiti e le logiche della rendita.

Rosa Uliassi

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