Uno degli strumenti finanziari in mano agli Stati per incrementare la liquidità sono i Sovereign Wealth Funds – SWF per gli economisti – che noi italiani traduciamo con semplicità in fondi sovrani.
Non è necessario avere paura dei fondi sovrani: essendo strumenti, è importante come vengono usati, e come in ogni campo se l’uso è intelligente il risultato non può che essere positivo.
Cos’è un fondo sovrano?
I fondi sovrani sono degli strumenti di investimento, di proprietà e gestione statale, che vengono utilizzati per investire in azioni, obbligazioni, immobili, aziende, riserve auree, riserve valutarie e materie prime.
Si distinguono in due tipologie, in base alle origini delle risorse iniziali: i fondi sovrani commodity, che sono basati sui ricavi delle esportazioni di fonti energetiche e materie prime, ed i fondi sovrani non-commodity, che invece sono finanziati dalle riserve monetarie della Banca Centrale nazionale, oppure dai proventi delle privatizzazioni e del fisco.
Un esempio di fondo sovrano commodity è il Government Pension Fund, il fondo sovrano norvegese: istituito nel 1990 e gestito dal Norges Bank Investment Management, un apposito ramo della Banca Centrale norvegese, in collaborazione con il ministero delle finanze, il GPF è stato creato con il surplus delle vendite del petrolio nazionale e con l’obiettivo di investire a lungo termine, in modo da poter sostenere le spese del welfare anche in caso di abbassamento delle rendite del petrolio. Ad oggi, il valore degli assets (proprietà e quote azionarie) del fondo si aggira intorno ai 1000 miliardi di dollari, rendendolo il fondo sovrano più ricco al mondo.
Questo strumento di saggia lungimiranza, fino al 1997, si è retto acquistando buoni del tesoro governativi, per poi iniziare in quell’anno a poter avere fino al 40% del valore del fondo in titoli azionari, fino ad arrivare al tetto 70% consentito dal 2014 ed attualmente al 65,1%: è da qui che in vent’anni il Government Pension Fund ha iniziato ad accumulare quote di aziende e valore degli assets.
Intelligentemente gli investimenti sono stati differenziati in diversi settori produttivi, con circa 9000 compagnie coinvolte: da Apple e Microsoft a Nestlé alla Royal Dutch Shell.
Come fa un fondo sovrano da 1000 miliardi di dollari a sopravvivere senza correre tutti i rischi della finanza moderna e della speculazione?
La domanda potrebbe sembrare stupida, alla luce di quanto esposto finora, ed a maggior ragione se si considera che da qualche anno la gestione del fondo ha deciso di disinvestire da imprese che producono tabacco (dal 2003) ed armi (dal 2010), inserendole in un’apposita blacklist, e tenendone altre “sotto osservazione”, sfruttando la propria potenza economica per esercitare pressione ed influenzare le politiche aziendali nei vari consigli di amministrazione.
In questa sorta di “capitalismo etico” di Stato – simile al “capitalismo umanistico” di Brunello Cucinelli – infatti il fondo sovrano norvegese si attiene, come da mandato decretato dallo Storting (il parlamento monocamerale di Oslo), a tre principî cardine che sono i diritti dei bambini, l’impatto ambientale e la gestione delle risorse idriche.
Non è un caso, dunque, che il fondo investa anche nei campi delle energie rinnovabili, che dovranno sostituire il petrolio – ovvero la risorsa naturale che ha consentito la nascita del fondo – nei decenni futuri, in modo tale da diventare un modello (ed un forte influencer) per gli investimenti secondo responsabilità sociale.
Cionondimeno, il fondo stesso mantiene quote di compagnie petrolifere come British Petroleum, Chevron, Eni, Esso, Exxon, Gazprom, Lukoil, Petronas, Repsol, Shell, Saipem, Statoil (la compagnia petrolifera norvegese) e Total. Come fa ciò a rientrare nell’ottica di “capitalismo etico” del fondo? Come detto in precedenza, attraverso la pressione esercitata nei consigli di amministrazione perché l’impatto ambientale sia sempre meno dannoso.
Il “capitalismo etico” conviene nella gestione del fondo sovrano?
La risposta è semplice, ed è: dipende. Se si considera il solo aspetto finanziario, il conto è presto presentato: un fondo che effettua il 78% dei propri investimenti in grandi aziende di mercati stabili non è amante del rischio, e pertanto non avrà guadagni a percentuali elevate, bensì rendimenti bassi e costanti. La scelta di escludere dal portfolio degli investimenti settori poco etici ma certamente redditizi porta ad una possibilità di profitto ben inferiore a quella che si avrebbe senza i limiti etici.
Nonostante queste limitazioni autoimposte, il fondo sovrano norvegese è quello con il valore degli assets più elevato al mondo. I mancati introiti, secondo la gestione, sono accettabili e pienamente compensati.
Da cosa? È presto detto: sono compensati dal futuro. Sì, perché il fondo sovrano norvegese è nato per finanziare il costoso sistema del welfare del Paese scandinavo, ampiamente sostenibile per i più di 5 milioni di abitanti attuali, e le pensioni che danno il nome al fondo saranno certamente garantite a tutti i norvegesi.
Quello che è ancora più importante, tuttavia, è che la ricchezza attuale, grazie alla svolta etica, non è stata ottenuta a scapito delle generazioni future, ma cerca di modificarsi proprio nell’ottica di una società più sostenibile.
In conclusione, la lezione che ci arriva dalla Norvegia è che con intelligenza e prudenza è ancora possibile coniugare la crescita economica, anche di un fondo sovrano come il Government Pension Fund, con lo sguardo al futuro ed alla tutela del mondo del “capitalismo etico”.
Simone Moricca