Giovanni (tutti i nomi sono di fantasia, nda) è un anziano padre di famiglia rimasto senza lavoro. Alto, un po’ curvo nella piega dei suoi anni e nei capelli di cotone bianco, avanza offrendo accendini, fazzoletti, penne e bloc-notes in un rispettoso silenzio, e salutando con un “che Dio vi benedica” mentre cambia carrozza e si prepara a raccontare di nuovo la sua storia, forse per la milionesima volta; Giovanni non lo sa più, ha perso il conto nell’identica staticità dei suoi giorni da viaggiatore.

Cosmin è un ragazzino esile e timido, dai tratti marcatamente caucasici, le sopracciglia aggrottate e la pelle olivastra. Viaggia sempre in compagnia del suo violino, con cui compone una melodia nervosa e un po’ confusionaria, mentre si regge in equilibrio a piedi ben divaricati e le note sfrigolanti sanno di polvere e consunzione. Certe volte, quando la folla è troppa, Cosmin ripone il violino nel suo zainetto ed alla musica fanno luogo sguardi vaghi e il cambio del treno. Meglio riprovare.

Gennaro, invece, ha l’aspetto tipico del ragazzo napoletano, robusto e sfrontato, qualche tatuaggio sui polpacci e il cappellino con la visiera al contrario sul capo. Accende uno stereo portatile che potrebbe essere lontano erede dei ghetto-blaster di Harlem, ma qui siamo a Napoli e la musica che parte è una canzone latinoamericana che Gennaro accompagna suonando il bongo. Qualcuno muove ritmicamente il piede, qualcun altro continua ad ascoltare negli auricolari, mentre quel cappellino ora viene porto sottosopra alla benevola ricerca di una moneta.

Il più delle volte si raccoglie indifferenza, di tanto in tanto cenni di fastidio e sospetto, raramente arriva qualche spicciolo ed ancor più raramente un sorriso: perché i soldi non sono roba da ricchi.

Cari lettori, le storie appena tratteggiate sono in realtà le storie di migliaia di figure simili, troppo difficili da raccontare tutte, meno difficili da immaginare.

Chi viaggia quotidianamente in metro – si trovi a Napoli, a Milano, a Roma, non importa – sa imparare a riconoscere la “presenza” di questi fantasmi della società, a percepirli nella distratta fugacità di rotaie e finestrini, occhi assonnati e cronici ritardi. Giovanni, Cosmin, Gennaro, e i tanti come loro costretti a fuggire dall’emarginazione, in un furioso nomadismo per strappare benevolenza ai poco benevolenti pendolari, sono lo specchio ribaltato di un microcosmo sotterraneo, lontano dalla luce del sole e dai riflettori del perbenismo, che trasmette un’immagine capovolta di se stesso.

Sono figuranti senza più nome né memorie, lasciati indietro da una folle frenesia, a gravitare dantescamente in luoghi d’ombre e preconcetti, elemosinando con la dignità in tasca e la rassegnazione in cuore di chi è finito troppo in basso per uscire a riveder le stelle. Viaggiano in metro, come a scappare da qualcosa, a nascondersi da una terra che li ha rinnegati lasciandoli soli nel mormorio brulicante di studenti, lavoratori, gitanti. Cavour, Montesanto, Amedeo, Mergellina, poi magari un salto indietro, in direzione opposta, per non bruciarsi di una presunzione a metà fra l’icarico e il pindarico.

Le loro vite trascorrono così sempre uguali: d’estate, al ribollire feroce delle lamiere, e d’inverno, nell’algida mano guantata del disprezzo. Senza di loro, credo ci sentiremmo tutti privi di qualcosa, non si sa bene cosa, un’assenza ad un livello appena più basso della percezione. Perché dopotutto Giovanni, Cosmin e Gennaro sono l’essenza più invisibile dei nostri fallimenti, la sfida che la globalizzazione dell’indifferenza ha vinto e che i più deboli hanno perso: loro, ma anche noi, che li osserviamo nella fretta indispettita di arrivare a destinazione, scendere, e lasciarci alle spalle un sottile senso d’incompletezza.

Metro dopo metro: se di distanze o di stazioni, decidete voi. Il sole oggi è alto e i treni circolano di meno, perché è domenica. Mi chiedo dove siano tutti quanti. Mi chiedo se quei raggi distesi pigramente sui tetti e sulle antenne giungano anche a loro, per ricordargli di un passato regredito quasi a istinto, o di un futuro che qualcuno ha deciso non gli spettasse.

Mi chiedo dove sia la vita a Napoli, se nei gioviali scrosci di passeggiate sul lungomare, nelle risate calde di tazzine di caffè, nelle pentole di ragù che borbottano sul fuoco, oppure nella stanca ipocrisia che ha abbandonato quella gente sui sediolini scomodi di una metropolitana.

Ma forse ho già capito la risposta.

Emanuele Tanzilli

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