Il TAR del Lazio boccia la candidatura di cinque dei venti direttori dei supermusei, sferzando un duro colpo alla galoppante riforma MiBact del ministro dei beni culturali Dario Franceschini. Motivo? secondo la legge, quei posti sono riservati ai cittadini italiani. E i candidati bocciati non lo sono.

https://www.liberopensiero.eu/2017/05/26/tar-musei-sentenza/

Legge retrograda: se pensiamo che la cittadinanza di una persona ne definisca il merito meglio delle competenze, comincia a risuonare di razzismo. Ma è una legge, bellezza, e non è forse compito dei tribunali bocciare le azioni che la violano?

La politica italiana, con il fanciullesco vigore di un bimbo viziato, subito si alza in piedi indignata. Matteo Renzi dichiara: “Non abbiamo sbagliato perché abbiamo provato a cambiare i musei: abbiamo sbagliato perché non abbiamo provato a cambiare i Tar!”.

Dario Franceschini: “Sono preoccupato per la figura che l’Italia fa nel resto del mondo”.

Forse l’Italia la figura se la sarebbe risparmiata, se fior fior di avvocati che alla schiera di Franceschini hanno organizzato la riforma (con tanto di annuncio di selezione pubblicato sull’Economist) si fossero ricordati di una legge dello Stato che impediva loro di agire in tal senso.

Ma l’attitudine arrogante della dirigenza italiana persisite e resiste, arroccandosi su argomentazioni fatue con il broncio in viso. Franceschini twitta “sono senza parole...”: si è indignato perché una legge gli ha impedito di comportarsi a suo piacimento. Benvenuti nella democrazia.

D’altronde Fraceschini forse si è dimenticato di essere ministro, e fino a prova contraria il potere esecutivo può interpellare quello legislativo per cambiare una legge che pensa non andare bene: ma in nessun modo può ignorare la legislazione come se non esistesse.

Si aggiunge all’argomentazione del Tar il fatto che i colloqui sono stati fatti in modo “magmatico”: modestamente, la chiarezza e la trasparenza nell’assegnazione di cariche pubbliche sono per l’Italia un fiore all’occhiello, e anche in questo caso abbiamo dimostrato le nostre italiche capacità.
Paragone: il Getty Museum di Los Angeles, per scegliere l’ex direttore della Galleria Estense come curatore di collezione, ha speso giorni in colloqui, visite ed indagini. A noi è bastato un quarto d’ora di colloquio, a volte fatto via Skype, a porte chiuse.
Cristallino, direi.

Questa vicenda ci regala una buona occasione per riflettere sull’operato del ministro Franceschini: e in tal senso non possiamo non appellarci alle brillanti idee di quel fiero combattente di trincea che è Tomaso Montanari, portabandiera di quella fetta di persone che ancora credono nel patrimonio artistico culturale italiano e si oppongono alla sua commercializzazione.

La riforma MiBact parla chiaramente di integrazione fra turismo e cultura, due fenomeni lontani e che anzi, almeno nella nostra bella Italia, nuotano in direzioni opposte e a volte perfino si pestano i piedi.
Se questi settori hanno avuto finora vite separate è perché non condividono lo stesso fine: il turismo ha scopo economico, come l’industria. La cultura ha scopo formativo, come la scuola. Il fatto che condividano gli spazi in cui si esprimono non vuol dire che possano essere accorpate ideologicamente.

Spingere le masse a forza nei luoghi di cultura non vuol dire istruire il Paese (conosciamo bene i tristi livelli di analfabetismo funzionale che il popolo italiano tenacemente detiene): la prima domenica del mese, le notti al museo, questo modo pop di svendere l’arte, nella pratica non serve: quantità non è qualità, e molto spesso andare al museo nel giorno di apertura gratis (giorni in cui, tra l’altro, le sale sono strapiene e diventa difficile godersi gli spazi) diventa solo il tappabuchi del tempo libero, o l’ennesima storia su Instagram di un bel quadro che nemmeno ci si ferma a guardare.

Forse l’Italia, anzi, soffre di troppo turismo e troppa poca cultura: se insegnassero agli italiani ad amare il proprio patrimonio culturale, a proteggerlo, a conoscerlo, a sentirlo proprio, non permetterebbero a orde di turisti inferociti di distruggerlo, come sta succedendo a Venezia o a Roma.

E qui ci ricolleghiamo alle numerose critiche che esponenti dell’opinione pubblica hanno mosso nei confronti della scelta deliberata da parte del ministro della cultura di cercare per i supermusei manager culturali dall’estero: Vittorio Sgarbi, ad esempio, o l’europarlamentare della Lega Nord Gianluca Buonanno, sostengono che questa scelta disprezzi e penalizzi i meriti e le qualità italiane.
E invece, penso che siano proprio gli italiani a non dare il giusto valore a ciò che appartiene loro. Forse dovremmo imparare qualcosa da tedeschi e inglesi, in fatto di tutela e gestione.

Il secondo punto importante della riforma è, invece, il mecenatismo, e l’introduzione di investimenti privati sempre più consistenti nel mondo della cultura. Mi duole dire che questa è una cosa positiva, nella misura in cui in Italia gli investimenti seri, le proposte più audaci, le mostre che osano, sono sempre in mano ai privati. La privatizzazione sta salvando la cultura italiana, ma questo non fa onore allo Stato. I dirigenti museali sono stati trasformati in mega-manager con piena autonomia di bilancio.

Quello che stiamo vivendo non è il miglior periodo per la politica italiana, ma incrociare le braccia assumendo quel tipico atteggiamento di chi fa il bastian contrario di professione, criticando sempre e comunque tutto ciò che viene da quella politica che negli ultimi decenni ci sta dando solo delusioni, fa male a sé e agli altri: per questo motivo non si può negare che la riforma Franceschini abbia portato a casa risultati che sono difficilmente confutabili. È altrettanto vero che, però, lo sta facendo su dei presupposti fastidiosamente sporchi di logiche contabili, e poco di quell’impegno morale, di quell’alto senso di responsabilità che dovrebbe guidare chi ha in mano il grande potere di gestione della cultura nel Bel Paese.

Ah, e che il ministro impari in primis a rispettare la legge: che sia proprio la fretta mediatica di dimostrare la sua fervente attività politica che lo sta portando verso scelte simpaticamente scoppiettanti, ma poco inclini ad un lavoro di riforma strutturale?

Ludovica Perina

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