Non bisogna essere indovini per prevedere che Ready Player One si rivelerà uno dei progetti più controversi di Steven Spielberg. Anche prima del suo rilascio, questo adattamento del best seller del 2011 di Ernest Cline è stato criticato duramente dalla Rete. Era prevedibile, sebbene Spielberg abbia affrontato argomenti molto controversi nella sua lunga carriera come il terrorismo e la schiavitù: nessun soggetto cinematografico è più “difficile” da affrontare di quello di un film ambientato nel modo dei videogiochi.
E non solo i videogiochi. Ready Player One, scritto da Cline e Zak Penn, si tuffa nel mondo dei nerd più fanatici, dell’autocommiserazione maschile e della techno-mitologia in cui quei passatempi, un tempo innocenti, sono ora dei miti, quasi divinità. Spielberg, un appassionato di musica digitale e un cineasta della vecchia scuola, si spinge oltre la maggior parte dei registi nell’esplorare le possibilità estetiche di una “forma” che viene spesso respinta e fraintesa.
Aiutato dal suo abituale direttore della fotografia, Janusz Kaminski, e dallo scenografo Adam Stockhausen, trasforma un vasto paesaggio virtuale di combattimenti di avatar in un vivace parco tematico pop-culturale, un museo interattivo di intrattenimento del tardo XX e XXI secolo, un labirinto di citazioni, preoccupazioni di culto e richiami di grande successo. Spielberg naviga in questo “carrozzone” con la sua solita destrezza, caricando ogni frame di informazioni senza perdere la chiarezza e il ritmo della storia.
Il materiale di partenza è senza dubbio buono, di certo non privo di problemi. Il libro di Cline – leggibile e sicuramente divertente – è un miscuglio di easter-egg e cliché. Meno di un decennio dopo la pubblicazione, sembra già soffrire dei segni del tempo, in parte perché la sua visione distopica sembra eccessivamente ottimista e in parte perché l’idea della ribellione maschile geek è diventata “stantia”.
Nel film, ambientato nel 2045, Wade Watts (protagonista interpretato da Tye Sheridan) vive in una pila verticale di rimorchi insieme ai poveri residenti di Columbus, nell’Ohio (Oklahoma City nel libro), aggrappati alla speranza, alla dignità e ai loro visori VR. L’umanità è stata devastata dai “soliti” disastri politici ed ecologici e la maggior parte delle persone cerca rifugio in un paradiso digitale chiamato OASIS.
Quel mondo – popolato da maghi, robot e piloti – è la creazione del “maestro dei videogiochi” James Halliday (interpretato da Mark Rylance). Dopo la morte di Halliday, il suo avatar rivela l’esistenza di una serie di easter-egg, o tesori digitali segreti, la cui scoperta porterebbe un fortunato al completo controllo di OASIS, patrimonio inestimabile. Wade è un gunter – abbreviazione di egg hunter – determinato a perseguire questa ricerca. Tra i suoi rivali vi è soprattutto Nolan Sorrento (Ben Mendelsohn), il capo di una società chiamata IOI che vuole portare il paradiso di Halliday sotto il proprio controllo aziendale.
La malvagità di Sorrento porta ovviamente a scontri nell’OASIS che si trasformano anche in inseguimenti reali per le strade di Columbus, nei quali l’azione è talmente rapida e avvincente che quasi la trama passa in secondo piano.
La parte più divertente di Ready Player One è la sua esuberante e generosa distribuzione di “chicche pop-culturali”. Il tributo è pagato ai maestri John Hughes e Stanley Kubrick. Le allusioni visive e musicali sono abbastanza eclettiche che nessuno potrebbe sentirsi escluso, e ogni volta è probabile che qualcuno si senta un po’ smarrito.
Effetto nostalgia? Sicuramente, ma ciò che anima veramente il film è il senso della storia. La caccia alle easter-egg riporta Parzival, avatar del protagonista, e il suo equipaggio nella biografia di Halliday – la sua associazione malefica con Ogden Morrow (Simon Pegg), i suoi tentativi di romanticismo – e anche attraverso l’evoluzione dei videogiochi e delle attività correlate. La storia è anche in un certo qual modo sentimentale, ponendo una lotta per il controllo tra gli idealisti, gli imprenditori artistici e gli avidi di una società senz’anima.
«La gente viene in OASIS per quello che possono fare», dice Watts all’inizio del film. «Ma restano per quello che possono essere.»
Questa è la promessa della realtà virtuale, anche nel 2018. Abbiamo già ambienti multiutente che si avvicinano molto a questo concetto, come VRchat che consente di creare avatar personalizzati. La capacità di essere “visti” come qualcun altro potrebbe portare la VR ad essere la strada per avverare ogni desiderio, come avviene in questo adattamento del romanzo di Cline. Ma la realtà virtuale consente anche vere e proprie “connessioni”: amicizie come quelle di Parzival e gli altri co-protagonisti, relazioni che possono prendere piede anche nella vita reale. Ma non è lì che Ready Player One vuole condurci.
Questo non è l’obiettivo di Steven Spielberg. Non lo è mai stato. Il regista vuole che ti senta di nuovo un bambino – e in tal senso, ci riesce. Ready Player One è una caccia al tesoro accelerata, tempestata di rimandi ai personaggi più amati della cultura POP, forte e divertente come dovrebbe essere un’opera fatta su misura per i più nerd.
Ma tutto ciò ha un costo. «Mi piacciono le cose come erano», dice lo stesso Halliday in un ricordo archiviato. «Perché non possiamo andare indietro per una volta?» Come lo stesso OASIS, Ready Player One è un “emulatore”, che conserva gli eroi attuali e gli eroi dei tempi andati.
Che effetto avrebbe sulla società – e soprattutto sulle persone – se tutti si rifugiassero in una comfort-zone virtuale? Se tutti smettessero semplicemente di vivere le proprie vite perché ritenute troppo “difficili” o magari non all’altezza delle proprie aspettative? Come si suol dire, ai posteri l’ardua sentenza.
Qui, il trailer ufficiale in italiano.
Giuseppe Palladino