I diritti di proprietà intellettuale sono tra gli elementi caratterizzanti di una società capitalista: è in tale ambito che si collocano i brevetti sanitari, considerati come un “incentivo” per le imprese ad investire in ricerca e sviluppo. È vero che essi permettono all’azienda di avere una “esclusività” del prodotto, almeno fino a quando il brevetto non scade, ma pongono altresì degli enormi dubbi etico-morali riguardo al loro utilizzo. Accettando l’esistenza dei brevetti stiamo infatti implicitamente dicendo che il profitto del produttore è più importante della salute pubblica, o comunque di una parte dei bisogni irrinunciabili correlati ad essa? E se così fosse, allora siamo anche disposti ad accettare che in tempo di pandemia gli Stati si ritrovino ad essere ricattati dalle aziende che producono i vaccini? E come ci poniamo quando un vaccino indispensabile per la profilassi, come nel caso della Covid-19, viene brevettato da multinazionali private che hanno ottenuto enormi finanziamenti pubblici? Procediamo con ordine. L’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca ha prodotto delle conseguenze non indifferenti nel modo di affrontare la pandemia, diventata tutta d’un tratto una delle priorità per Washington a differenza della precedente amministrazione Trump.
Biden ha affermato di voler vaccinare “100 milioni di americani entro i primi 200 giorni di presidenza”. Pfizer e AstraZeneca, due delle multinazionali farmaceutiche proprietarie dei brevetti vaccinali anti-Covid, si sono dimostrate fin da subito sensibili alle richieste di Washington, sia a fronte di un’offerta economica maggiore rispetto a quella europea, sia perché l’amministrazione Trump, con l’operazione Warp Speed, aveva già erogato 2 miliardi di dollari a Pfizer e 1,2 miliardi a AstraZeneca. Tali eventi vanno con prepotenza a riorganizzare gli assetti geopolitici sulla produzione e distribuzione dei vaccini: Pfizer ha ridotto del 30% le fornitura ai paesi europei mentre AstraZeneca ha annunciato una riduzione del 60% rispetto al primo trimestre 2021, rallentando significativamente quelli che erano i programmi per la campagna di vaccinazione iniziata poche settimane fa. Non c’è da meravigliarsi.
Nel momento in cui si è deciso di sottoporre ogni aspetto della nostra società alle logiche di mercato e di delegare la produzione di vaccini in prima istanza a multinazionali private, bisogna aspettarselo: è del tutto consequenziale che esse ambiscano semplicemente a massimizzare il loro profitto. La reazione europea ed italiana è sembrata essere veemente: Conte ha dichiarato come “inaccettabile il taglio delle dosi di Astrazeneca e Pfizer” e ha annunciato azioni legali nei loro confronti; in realtà, però, è stata solo la più classica delle sceneggiate. Di fronte alla richiesta di India e Sudafrica all’Organizzazione Internazionale del Commercio (WTO) di sospendere i brevetti legati ai vaccini in modo da dare la possibilità agli Stati di produrli ed aumentare dunque la disponibilità di essi, sono state proprio le potenze occidentali ad opporsi tra cui gli Stati Uniti, l’Unione Europea (tra cui l’Italia) e il Regno Unito. Al netto dei proclami e delle affermazioni fatte, è evidente che i precetti della dottrina neoliberista non vengono messi in discussione nemmeno in tempo di pandemia: i brevetti non si toccano e i profitti privati neanche, pertanto la salute pubblica è subordinata agli interessi privatistici.
Eppure, la strada che abbiamo deciso di percorrere non è l’unica esistente: se l’Italia non avesse smantellato il settore pubblico negli ultimi trent’anni e fosse stata in grado di produrre il proprio vaccino in tempi brevi, non solo non ci sarebbero stati problemi legati alla distribuzione e alla produzione del medesimo, ma allo stesso tempo ci sarebbero stati numerosi posti di lavoro per giovani ricercatori costretti ad emigrare per essere occupati proprio presso quelle multinazionali che ci ricattano e mettono, più o meno paradossalmente, in pericolo la vita di milioni di persone. In tal senso un esempio concreto arriva da Cuba, che sembra essere pronta alla distribuzione di 100 milioni di dosi per un vaccino 100% pubblico a fronte di una popolazione di 10 milioni, senza brevetti, e ha già annunciato che tutti i vaccini “in più” verranno distribuiti ai paesi del Terzo Mondo. In questo modo, si porrebbe rimedio ad un’ulteriore problematica legata alla distribuzione dei vaccini e all’immoralità dei brevetti: il rischio che si venga a costituire una “apartheid” dei vaccini, nella quale gli Stati più deboli vengano totalmente esclusi nelle forniture vaccinali. Ciò, più che un’ipotesi, sembrerebbe essere la direzione nella quale si sta andando, con il 14% della popolazione mondiale che sembra essersi già aggiudicata circa il 60% delle dosi stimate per il 2021.
Ed è proprio parlando di apartheid che ci viene incontro l’esperienza di Nelson Mandela. Il leader ANC, da presidente del Sudafrica, promulgò il Medical Act del 1997 provando ad eludere i brevetti dei medicinali per l’AIDS. Il suo tentativo fallì a causa dell’azione legale di 39 case farmaceutiche, che riuscì a bloccare la legge in quanto “violava le regole del commercio internazionale e i diritti di proprietà intellettuale”. La risposta a tutte le nostre perplessità sta tutta in questa breve esperienza: i brevetti sanitari sono semplicemente figli di un sistema economico marcio, nel quale le grandi multinazionali hanno a disposizione strumenti di bio-potere che permeano ogni aspetto della nostra vita, mercificando, prezzando, svilendo tutto ciò che siamo, che proviamo, che amiamo, in nome del Dio mercato.
Nicolò Di Luccio