Quando parliamo di migranti istantaneamente vien da pensare a delle persone solitamente nere, solitamente uomini, su dei barconi che intraprendono questo lungo “viaggio della speranza”, così denominato dai media. Al Salone del libro e dell’editoria di Napoli la casa editrice Astarte ha presentato il libro Diritto d’esilio di Alexis Nuselovici (Nouss), il cui titolo è già un gioco di parole che fa riflettere sulla questione migratoria. Abbiamo intervistato due delle fondatrici della casa editrice, Anita Paolicchi e Carolina Paolicchi, quest’ultima anche traduttrice del testo.
Parlateci del progetto della vostra casa editrice “Astarte”: perché avete scelto come tema principale il Mediterraneo?
A.P.: «Astarte nasce nel 2019, abbiamo iniziato a stampare nel 2020 in pieno Covid. Nasce da un’esigenza personale mia, di Carolina Paolicchi e Francesca Mannocci: avevamo concluso la nostra formazione all’università e sentivamo il bisogno di qualcosa che fosse nostro, che parlasse di noi e che fosse a lungo termine. Avendo una formazione umanistica, in quanto Carolina è una traduttrice e linguista mentre io e Francesca siamo storiche dell’arte, abbiamo pensato che una casa editrice fosse un elemento comune a tutte e tre. A questo si sommava un’esigenza personale: creare qualcosa che in un’epoca di muri e divisioni parlasse di dialogo. Abbiamo identificato nel “Mediterraneo” la parola chiave intorno alla quale costruire qualcosa: la nostra idea è che il Mediterraneo, che viene sempre percepito come una barriera tra nord e sud, potesse essere rivalutato come luogo di incontro, quello che poi storicamente è. Essere, inoltre, uno spunto per riscoprire una identità mediterranea per riscoprire luoghi e culture che in realtà non sono lontane dalla storia dell’Italia. Abbiamo iniziato con tre collane: la prima si chiama Azzurra, diretta da Barbara Sommovigo, ed è una collana di narrativa e poesia, ci sono poi una serie di collane tematiche di saggistica che guardano al Mediterraneo dal locale al globale, quindi ci sono alcune collane di arte e altre più specifiche come Hurriya (حرية) sulla migrazione, diretta da Federico Oliveri, e l’ultima nata, Manifesta, diretta da Renata Pepicelli, che riguarda le questioni di genere nel mondo mediterraneo inteso come spazio allargato, guardando anche alle regioni vicine dell’Asia sud occidentale.»
Parlaci della collana Hurriya di cui “Diritto d’esilio” fa parte.
A.P. «È stata inaugurata l’anno scorso con la traduzione del volume “Le dannate del mare” di una sociologa e geografa francese che si chiama Camille Schmoll ed è una prospettiva femminista sulle migrazioni. Quando si parla di migrazioni e migranti si sottintende uomini, invece il punto di partenza di questa riflessione è che non solo le donne sono una parte importante delle migrazioni attraverso il Mediterraneo ma che le migrazioni femminili abbiano delle caratteristiche specifiche, sia per quanto riguarda i motivi della partenza sia per le esigenze di queste donne quando arrivano, si spera, in Europa. La seconda uscita invece è “Diritto d’esilio” di Alexis Nuselovici (Nouss) e il terzo libro uscito il 31 maggio è “Razza e cittadinanza” di Camilla Hawthorne.»
Come mai avete scelto la parola araba Hurriya حرية?
C.P: «Vuol dire “Libertà” ed una parola che abbiamo scelto con il direttore della collana. Viene usata dagli esuli nel momento del viaggio, si parte anche in nome di questa hurriya, di questa libertà. Una libertà che include le libertà umane più fondamentali, a partire dal diritto di scegliere dove vivere.»
A.P: «Il punto di partenza della collana è l’idea che la libertà di movimento sia distribuita in modo drammaticamente ineguale tra gli abitanti del pianeta: confini, visibili e invisibili, si ergono ovunque per selezionare chi ha il diritto di muoversi e chi non ce l’ha.»
Questa collana ha un filo conduttore?
A.P: «Parlare di migrazione come fenomeno complesso e tutti i fenomeni correlati. Le prime uscite erano i tre tasselli per dare le coordinate, ora vedremo come proseguire.»
Parlateci del libro “Diritto d’esilio”.
A.P: «L’edizione italiana è molto diversa da quella francese: è stato fatto un lungo lavoro di adattamento e aggiornamento del testo, grazie alla collaborazione tra il direttore della collana, Federico Oliveri, che quindi è diventato anche curatore di questo testo, la traduttrice e l’autore. Questo perché le migrazioni sono un fenomeno molto rapido, specialmente poi dopo il Covid, ulteriormente con la guerra in Ucraina. Nella versione italiana ci sono inoltre molte note che danno delle coordinate giuridiche ai meno esperti e spunti di riflessione ulteriori a chi invece questo tema lo conosce meglio. Il titolo è provocatorio “diritto d’esilio” al posto di “diritto d’asilo”. Secondo l’autore, il diritto d’asilo com’era stato pensato alla metà del Novecento non è più sufficiente a rispondere alle esigenze di oggi. Siccome invece l’esilio è un elemento chiave della cultura europea – perché Enea arriva e fonda una civiltà, perché gli esuli politici del ‘900 sono figure positive, perché la narrativa è piena di personaggi come Ovidio che va in esilio sulle sponde del Mar Nero -, perché quindi non chiamiamo i migranti “esuli“? Hanno questa esigenza di trovare un posto dove stare, perché quindi non li intendiamo come personaggi positivi da includere nella narrativa europea?»
C.P: «Questo non è solo per giocare sulle parole: il linguaggio modula il pensiero. Cambiare prospettiva richiede necessariamente un cambio nel linguaggio. Il diritto d’asilo è un concetto coniato dopo la Seconda Guerra Mondiale, quindi per rispondere ad esigenze diverse. Cercare di gestire ora un fenomeno migratorio utilizzando strumenti non adeguati non è possibile.»
A.P: «È importante anche parlare di “fenomeno migratorio” e non di “crisi”, che sottintende un perenne stato emergenziale, in un certo senso “autorizzando” i governi a non intervenire in modo risolutivo e con una prospettiva a lungo termine. Su questo aspetto insiste anche la prefazione, intitolata “CovidExil”, in cui Nuselovici osserva come il Covid abbia insegnato che una crisi, in questo caso sanitaria, può essere gestita, se c’è la volontà. Quindi, in realtà, anche definire le migrazioni “crisi” non può più essere una scusa per non intervenire e non accogliere.»
Carolina in quanto traduttrice del libro, potresti parlarci del problema maggiore che hai riscontrato nel processo di traduzione?
C.P: «Sicuramente ritrasportare questa idea di trovare parole nuove per la migrazione da una lingua all’altra: si tratta di tradurre tutta una situazione linguistica riformulandola con termini italiani. Basta pensare alle molte parole utilizzate in Italia nel corso degli anni per parlare di migrazione: si è parlato prima di immigrati, migranti, richiedenti asilo, profughi, rifugiati, con anche una grande confusione sul significato di questi termini.»
C’è stato inoltre un tentativo da parte di alcuni gruppi politici di usare i termini riguardanti le migrazioni per creare paure, di far diventare negativi alcuni termini, concetti come “immigrati”, “migranti”, “senegalesi”, parole che dovrebbero essere neutre perché una situazione giuridica o uno status amministrativo non dovrebbero avere un peso né positivo né negativo. Invece sono state strumentalizzate e sono diventate sinonimo di “pericolo”. Queste parole non sono uguali nell’universo francese e italiano, la parte più interessante è stata ripensare a quella che è la situazione linguistica italiana e trasportare l’idea dell’autore sulla nostra realtà. Il lavoro è stato fatto con l’autore Alexis Nuselovici, per ricucire questa traduzione in modo da unire la situazione francese e quella italiana, e con Federico Oliveri, curatore dell’edizione italiana oltre che della collana.»
Com’è stato lavorare a stretto contatto con l’autore per la traduzione del libro?
C.P: «È stato estremamente interessante confrontarsi con autore e curatore per dare vita a questa edizione italiana, scambiandosi anche idee e opinioni. Conoscevo già Alexis Nuselovici dal mio percorso universitario all’università di Aix-Marseille, e ne conoscevo quindi l’impegno politico e il pensiero di studioso: questo è stato anche un elemento che ci ha portato a selezionare il suo testo per la collana Hurriya.»
Qual è stata una parte di questo libro che vi ha colpito particolarmente?
C.P: «Una cosa su cui avevamo avuto già una discussione in passato riguardava l’uso della parola “migrante”. Durante la presentazione di un libro a Palermo ci siamo confrontate con dei ragazzi migranti su questo concetto: la parola migrante viene utilizzata per indicare persone che in realtà hanno già compiuto il loro percorso migratorio, che sono arrivate ad una destinazione. Utilizzare la parola migrante è un modo per lasciare queste persone in una condizione di perenne sospensione, per non legittimare il fatto che nel luogo in cui si sono stabilite abbiano una casa, affetti e relazioni, che in questa società abbiano un ruolo. Cercare di trovare una parola che invece affermi che hanno un posto qui è di estrema importanza e conferisce loro dignità. Nel testo viene fatta una riflessione e si propone la parola “esule”. È importante trovare parole per dare legittimazione e spazio, sia a chi è ancora in viaggio, sia a chi questo viaggio lo ha concluso, creare un lessico che permetta di comprendere le molte situazioni e di non avere paura.»
Secondo voi, quale sarebbe il primo passo per migliorare il linguaggio?
A.P: «Semplicemente riflettere e interrogarsi sui termini che usiamo, per creare una catena di consapevolezza.»
C.P: «Provocatoriamente potremmo dire corsi di etica della comunicazione. Ognuno deve essere libero di scegliere i termini che preferisce, ma è necessario che si crei consapevolezza intorno al loro uso e significato.»
Gaia Russo