Simone Biles è probabilmente la ginnasta più forte in attività ed era una delle atlete più attese alle Olimpiadi di Tokyo. La sua scelta di ritirarsi in anticipo durante la finale della gara di ginnastica artistica a squadre ha lasciato tutti di stucco. Tra chi ha criticato la sua decisione e chi l’ha utilizzata per celebrare i successi di altre atlete, occorre una seria riflessione sui motivi che hanno portato la campionessa a tirarsi indietro. Una riflessione necessaria al fine di comprendere la pressione cui sono talvolta sottoposti gli atleti, dopotutto esseri umani come tutti noi.
Simone Biles ha mollato. Lo scorso martedì la 24enne campionessa statunitense, indubbiamente la migliore ginnasta in attività, già medaglia d’oro alle olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016 – quando aveva appena 19 anni – ha annunciato il proprio ritiro dalla competizione a squadre della ginnastica artistica delle correnti Olimpiadi di Tokyo. Lo ha fatto per motivi seri, legati ad una condizione psicologica inadatta ad affrontare una competizione del genere, notoriamente caratterizzata da enorme pressione e per la quale occorre un notevole livello di concentrazione. Ma la Biles non ha avuto paura di nascondere i motivi che l’hanno spinta al ritiro, mostrando piuttosto coraggio da vendere quando lo ha annunciato in diretta mondiale. Simone Biles ha ammesso di soffrire di twisties, un problema di carattere psico-motorio che non permette all’atleta di avere orientamento e controllo del proprio corpo durante l’esecuzione di alcuni esercizi. In via più generale, ha riconosciuto di avere letteralmente “i demoni nella testa” e di doversi concentrare sul proprio stato mentale per non mettere a repentaglio la sua salute e il suo benessere.
Simone Biles ha compiuto un passo importante, ma soprattutto con la sua scelta ha messo in evidenza un problema che negli ultimi anni è emerso in maniera prorompente: la difficoltà a gestire ansia, stress e depressione legati alla estrema competitività del mondo dello sport. Problema che, in realtà, può sicuramente applicarsi in generale a tanti altri aspetti della vita contemporanea. Quella necessità, imposta da un modello di società estremamente competitivo, di dover emergere e doversi distinguere. Una necessità che si trasforma in bisogno di eccellere, ma che talvolta spinge molte persone, specie i più giovani, a dare di più di quello che possiedono, facendogli pagare un prezzo molto alto.
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Simone Biles era abituata a tutto ciò. Era abituata ad eccellere nella sua disciplina, nella quale non ha praticamente rivali. L’abitudine ad essere la numero uno ti spinge a non accettare alcun margine di errore, perché allo stesso tempo nessuno è abituato a vederti sbagliare. Questo può tradursi in un’ansia di commettere errori che ti fa perdere il controllo di te stesso. In altre parole, è stata proprio l’abitudine ad eccellere di Simone a ritorcersi contro di lei, così come la voglia di distinguersi, mettersi un gradino sopra gli altri spinge spesso molti giovani a perdere la cognizione del tempo e del mondo che li circonda.
Forse bisognerebbe chiedersi quanto pesa realmente quella medaglia olimpica che gli atleti sul podio sfoggiano con soddisfazione al termine della loro gara. Probabilmente, questa è una domanda che in poche persone si pongono. L’atleta e, in generale, lo sportivo di successo, sono visti dal pubblico come delle macchine aventi come unico obiettivo quello di intrattenere e, magari, vincere. Lo spettatore medio non è tuttavia cosciente delle pressioni psicologiche cui è sottoposto un atleta, specie quando si ritrova addosso gli occhi del mondo intero nel corso di una competizione come le Olimpiadi. Pressioni che possono talvolta rivelarsi avverse e impattare fortemente la performance. Quando ciò accade, la paura di mostrare la propria condizione di fragilità e di ridimensionare l’importanza della loro figura impedisce agli atleti di ammettere le proprie debolezze. Ecco perché la scelta di Simone Biles deve essere applaudita e apprezzata, in quanto la campionessa è stata pioniera nell’ammettere la propria fragilità interiore, restituendo al mondo dello sport quel lato umano di cui ha bisogno.
Ma non tutti hanno condiviso la scelta di Simone di mostrare la sua debolezza in diretta mondiale. Qualcuno negli Stati Uniti l’ha accusata di codardia, di aver lasciato le proprie compagne di squadra in balia delle avversarie, costandole così la medaglia d’oro (poi vinta dalle russe). In particolare, in molti hanno evidenziato che la scelta di Simone Biles non può essere etichettata come coraggiosa e lodevole quando di mezzo c’è una competizione come le Olimpiadi, dove la pressione deve necessariamente far parte del gioco. In particolare, Novak Djokovic si è spinto oltre affermando che la pressione è un privilegio e che occorre imparare a gestirla se si vuole rimanere ai vertici dello sport, così come ha fatto lui. Già, proprio lui, che appena dopo aver pronunciato queste parole, ha distrutto la racchetta in segno di frustrazione in seguito alla sconfitta nella finale per il bronzo. Addirittura, qualche giornale si è permesso di utilizzare la vicenda della Biles per celebrare l’integrità e la forza di altre atlete, mettendo a confronto la fragilità della campionessa statunitense con la voglia di vincere di altre.
Tuttavia, c’è una cosa che coloro che criticano la Biles o che comunque utilizzano la sua vicenda in maniera impropria hanno omesso di considerare: non tutti sono in grado di reggere il peso del mondo sulle spalle alla stessa maniera. Ognuno ha i propri limiti che a volte non consentono di fare quel passo in più verso il raggiungimento di un obiettivo. Un passo che mentre per alcuni è la cosa più semplice del mondo, per altri è un macigno. E il fatto che Simone Biles sia un’atleta di livello internazionale che – a detta di alcuni – dovrebbe essere abituata a sentire il “privilegio” della pressione, non ha alcun rilievo. Al contrario, occorrerebbe cominciare a dare al mondo dello sport la giusta dimensione di umanità che merita. Gli atleti di fama e livello mondiale sono esseri umani, non robot privi di sensazioni. E le loro pressioni interne, a prescindere da qualunque obiezione si possa sollevare in merito al successo e al denaro, vanno rispettate ma soprattutto comprese.
Le performance sono spesso intaccate dall’andamento della vita personale dell’atleta. Simone Biles è una persona che ha anche vissuto dei momenti difficili. Innanzitutto, è stata parte degli scandali sugli abusi sessuali perpetrati all’interno della federazione statuintense di ginnastica. Secondariamente, alcuni anni fa suo fratello maggiore è stato arrestato a con l’accusa di triplice omicidio (poi assolto lo scorso giugno, per mancanza di prove, ndr). Sono questi eventi che cambiano lo stato d’animo di una persona e che necessitano di tempo per essere assimilati. Simone Biles ha dichiarato in effetti di aver perso la fiducia in sé stessa e, in particolare, di non divertirsi più. Al contrario, ha dichiarato che quando è in pedana a farle compagnia sono solo i suoi demoni. Demoni che potrebbero facilmente essere identificati con la paura di perdere e di fallire, inaccettabili quando, come detto, si è abituati ad eccellere.
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Ciò che è successo a Simone Biles deve spingere a riflettere e a cercare di captare le grandi difficoltà che oggi molti sportivi possono trovarsi ad affrontare. Difficoltà che sono indubbiamente aumentate con la situazione di asocialità creata dal Coronavirus, che ha lasciato molte persone sole con i propri pensieri e, a volte, come nel caso della Biles, con i propri demoni. Così come le vittorie e le medaglie nel mondo dello sport sono il risultato di dedizione e fatica, la realizzazione personale dal punto di vista lavorativo o relazionale giunge all’esito di scelte e rinunce. E in entrambi i casi, spesso il prezzo pagato per raggiungere l’obiettivo supera la soddisfazione provata per il suo raggiungimento. Qualche giorno fa Simone aveva scritto sul suo profilo Instagram di sentire tutto il peso del mondo sulle proprie spalle. Quel che è certo è che ora Simone si è scrollata di dosso questo peso.
La storia di Simone Biles è una storia di coraggio, che può essere particolarmente utile a tutti coloro che – nella vita privata, lavorativa, sportiva – si sentono soli e non trovano la forza per girdarlo al mondo per il timore di essere giudicati e di essere etichettati come perdenti e falliti. Simone ha dato una speranza a molte persone e ha sottolineato ancora una volta la necessità di sensibilizzare un problema che probabilmente affligge milioni di persone le quali continuano inesorabilmente a nasconderlo.
Amedeo Polichetti
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