Conoscete la sensazione di ritrovarsi in un déjàvu? Quello strano brivido che ti prende dall’interno e che ti fa dire “io qui ci sono già stato e questa cosa l’ho già vista”? La stiamo vivendo ancora una volta, mentre cerchiamo le parole per parlare nuovamente di un Mondiale al quale potremo fare solo da spettatori, senza partecipare, come nel 2018, continuando a sperare che sia solo un brutto sogno come abbiamo fatto 5 anni fa. Ma se 5 anni fa – pur non essendo completamente d’accordo – puntare il dito contro Giampiero Ventura era estremamente facile, perché la sua squadra era pessima sotto molti punti di vista, oggi non basterebbero nemmeno le mani della dea Kali per indicare ogni colpevole di questa sciagura calcistica, perché la Nazionale campione d’Europa che non va al Mondiale in Qatar non è una sfortunata coincidenza, bensì il fallimento di un intero sistema sportivo.

Eppure solo pochi mesi fa l’Italia era sul tetto d’Europa, dopo aver vinto una competizione sulla quale in pochi avrebbero scommesso alla vigilia. E per quanto si sia provato in questi giorni a sminuire il successo estivo, la squadra di Mancini ha convinto e meritato un trionfo, costruito soprattutto attraverso il gioco e l’unità di un gruppo che sembrava avere la spensieratezza di una classe di quinto liceo in gita all’estero. Qualcosa che è iniziato ed è terminato nell’arco di un mese, e che era sparito già durante le partite di qualificazione di settembre, dove la squadra sembrava una lontanissima parente di quella vista solo due mesi prima e le cui prestazioni hanno di fatto condannato l’Italia allo sciagurato playoff contro la Macedonia del Nord, che già 5 anni fa ci aveva spedito agli spareggi contro la Svezia e che stavolta si è invece “sporcata” le mani personalmente.

Ma parlare della sfida di giovedì è quasi superfluo; perché per quanto anche Mancini ci abbia messo lo zampino, mandando in campo diversi uomini che stanno attraversando un periodo di forma pessimo e spostando Raspadori in 3 ruoli in meno di 10 minuti, questa è solo la punta di un iceberg le cui dimensioni fanno impallidire quello che 110 anni fa fu colpito dal RMS Titanic. Il calcio italiano è ormai in una crisi così chiara e profonda che risulta quasi impressionante il folle immobilismo in cui versano i vertici del calcio nazionale, che già nel 2017 hanno ignorato il più grave dei segnali, perché dare la colpa a Ventura era davvero troppo facile.

E questo situazione è estremamente evidente a occhio nudo, e la vediamo ogni settimana in quello che dovrebbe essere l’esemplificazione della nostra cultura sportiva, ovvero la Serie A. Perché il livello del campionato italiano è in drammatico calo e per dei motivi ben precisi, che per qualche ragione continuiamo colpevolmente ad ignorare. Il ritmo delle partite è troppo lento, sia perché in campionato si tende a fischiare qualsiasi tipo di contatto e sia perché le squadre fanno fatica a costruire gioco con continuità, e non perché si preferisca ancora il catenaccio come impostazione tattica, ma solo perché continuiamo a preferire e puntare allo sviluppo di giocatori fisici, a discapito della tecnica, ma qui ci torneremo. Altro problema: ci sono troppe squadre in Serie A. Si potrebbe rispondere dicendo: ma anche negli altri campionati europei ci sono 20 squadre in totale. Vero, anzi verissimo. La differenza con campionati come la Premier League e La Liga, però, è che qui in Italia molte delle squadre di bassa classifica, più che cercare una salvezza tranquilla puntano a vivacchiare nella speranza che ci sia qualcuno peggio di loro alle spalle. Ancora peggio, ci sono molte squadre che salgono nella massima serie con rose totalmente inadeguate e che ti lasciano quasi la sensazione di puntare al paracadute economico, quasi finendo in Serie B senza rimpianti di sorta. Ridurre il numero di squadre a 18 come in Bundesliga, o addirittura a 16, aumenterebbe la qualità delle rose di tutte le altre squadre, perché con così pochi rivali il rischio di non raggiungere i propri obiettivi sarebbe molto più alto.

E questo non è un attacco a quelle piccole realtà che sperano di poter vivere un sogno nella massima serie, né intende esserlo in ogni modo. Ma il crollo è palpabile, ed è possibile notarlo dai risultati (o non risultati) ottenuti dalle squadre italiane in campo europeo. Nessuna squadra italiana ha più trionfato in Champions League da quella notte di Madrid che ha incoronato l’Inter di Mourinho nell’ormai lontano 2010; per ritrovare una squadra trionfante in Europa League bisogna guardare indietro fino al 1999, con il Parma di Malesani. Non solo non siamo più trionfanti, ma siamo ben lontani dal risultare una sfida accettabile per le avversarie, altrimenti non assisteremo inermi a ogni sfida, attendendo un’inesorabile sconfitta che arriva puntualmente, e a scene come quelle di JuventusVillareal che qualche anno fa sembravano tutt’altro che possibili. Siamo inadeguati sia a livello tecnico che atletico.

L’altro problema enorme è strutturale. Lo sviluppo dei giovani italiani è rimasto identico a quello di 30 anni fa, dove la tattica e il fisico sono il nostro cruccio principale, ma il loro impiego è calato drasticamente negli ultimi anni, fino ad arrivare ad oggi dove ci sorprendiamo dell’exploit di giocatori come Frattesi, Zaccagni e Raspadori, mentre all’estero Jude Bellingham ha già più di 130 presenze in tutte le competizioni a soli 18 anni, Pedri e Gavi sono il futuro del Barcellona e della Nazionale Spagnola a rispettivamente 20 e 17 anni ed è tutto nella norma. Il CT dell’Italia Under 21 Nicolato ha lanciato un gravissimo allarme, spiegando che a breve sarà costretto ad attingere dalla terza serie per le convocazioni, rimarcando come non ci siano effettivamente ragazzi italiani in massima serie. È troppo facile dire che la mancanza di giovani di livello è il motivo del loro scarso impiego, semmai il problema è la scarsissima fiducia che si ha in loro, immediatamente stroncati alle prime prestazioni negative e messi in disparte per favorire altri tipi di profili, magari meno criticabili e quindi più utili a far vivacchiare i club piuttosto che a favorire la crescita sostenibile del nostro calcio.

Serve un cambio di cultura ben più radicale di quello che abbiamo provato (o finto di provare) dopo il fallimento del 2017, che speravamo fosse anche l’ultimo della nostra storia. Ma se siamo qui non è solo colpa di Immobile, di Insigne, di Donnarumma o di Mancini. È arrivato il momento di guardarsi allo specchio e affrontare i problemi con serietà, anche se questo vuol rischiare di non ottenere risultati per altri anni. Il calcio italiano così non può più andare avanti, e non può permettersi di aspettare nemmeno fino a domani.

Andrea Esposito

Laureato all'Università di Napoli, L'Orientale. Attualmente studente all'Università Suor Orsola Benincasa. Nato il 30/08/1995 Aspirante giornalista.

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