Raggiunte quasi 25.000 firme, la petizione “Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra” lanciata da Massimo Arcangeli, in tre settimane di vita ha fatto molto parlare di sé. «Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto» sbraitava l’incipit della petizione. A firmarla c’erano linguisti rinomati e notevoli personaggi del panorama culturale italiano (Vera Gheno li chiama “linguapiattisti“), il che rattrista, se non per il contenuto, per i toni della petizione, che sembra ben distante dai presupposti del discorso sullo schwa e sull’inclusività del linguaggio in senso più generico.
La ‘pericolosa deriva’ – ‘questo sconosciuto’, citando volutamente Carrel, che a suo tempo già notava: «È meno arduo salmodiare formule o sonnecchiare sui principi che cercare laboriosamente come sono fatte le cose e quale sia il metodo per servirsene. Osservare è meno facile che ragionare. È risaputo che: Scarse osservazioni e molti ragionamenti sono causa di errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità»; dunque, la pericolosa deriva non sarebbe altro che un segno, questo qua ‘ə’ (che il nostro giornale ormai da anni ha scelto di utilizzare!). Lungi dal volersi sentire approdatə a una verità universale, chi lo utilizza condivide l’anelito di inclusività, che in vero ha condotto moltə e competentə della linguistica a cercare di riformulare la lingua e il metodo per servirsene, impastando con le mani in una materia che più viva non si può e che nessunə può pretendere di calare dall’alto.
Più che di follia si parla, allora, di ricerca, guidata da alcuni presupposti fondamentali del discorso di genere in materia linguistica. La presunta neutralità del genere maschile esteso è infatti già stata da tempo messa da parte da trattazioni di almeno un ventennio fa sul falso generico, e anticipate da Alma Sabatini nel suo “Il Sessismo nella lingua Italiana” per quanto concerne il solo binomio uomo-donna. Binomio che oggi si cerca di ampliare, in una visione sempre meno binaria, che necessita di inclusività nel linguaggio. «Una lingua che nega il riconoscimento di altre forme di genere non binarie è una lingua genderista che costringe tutti gli esseri umani ad appartenere ad una delle due categorie costruite dallo stesso linguaggio in relazione ai due sessi» afferma Balirano. Si evidenzia, quindi, il bisogno di insistere sull’intersezionalità: lì dove si suggeriva la presentazione dei due generi maschile e femminile, in luogo del solo maschile esteso, oggi si impone all’attenzione una terza categoria per una rappresentazione ancora più inclusiva.
Questa necessità ha portato alla sperimentazione di diversi dispositivi linguistici che, come la sopracitata petizione dimostra, incontrano molta resistenza. Dal ‘*’ alla ‘u’, dalla ‘@’ (nel contesto spagnolo) alla ‘x’, diverse le proposte, tra cui l’utilizzo dello schwa breve ‘ə’ di Vera Gheno, presente nell’alfabeto fonetico di molte delle varietà dialettali italiane. Sebbene si possa non essere d’accordo con il dispositivo scelto, oppure trovarsi in difficoltà ad inserirlo nel proprio parlato di tutti i giorni, resta inammissibile l’oscurantismo dinanzi alla necessità inclusiva, facendola addirittura passare come folle pretesa del politicamente corretto. Cosa che suscita triste ilarità detta da chi il problema della sua stessa rappresentazione nel linguaggio, e quindi anche nella società, non se l’è mai dovuto porre. Negando implicitamente che le parole siano un atto identitario e chiamando la petizione ‘pro lingua nostra’, riducendo l’inclusività ad una scusa. Il vero proposito della petizione di fatto non rivendica nulla, dato che l’uso dello schwa è ben lungi dall’essere diventato norma.
Chi sono i linguapiattisti?
Come si diceva all’inizio, Vera Gheno li chiama “linguapiattisti” nel suo ultimo libro “Le ragioni del dubbio”: «n primis, perché si comportano in maniera antiscientifica, esattamente come i terrapiattisti; in secondo luogo, perché pensano sovente che la lingua sia monolitica, immobile, immota, distaccata dalla realtà, incapace di mutare: in altre parole, piatta». Sembrano dapprima quasi credibili, con nomi e professioni altisonanti (tra cui menzioniamo il professor Alessandro Barbero), ma poi cedono in un grande tranello, il più grande di tutti, vivere senza dare e darsi il beneficio del dubbio, creando il distanziamento con la gente, i/le follə barbarə del politicamente corretto. Ma la vera differenza qui, il vero distanziamento è un altro, quello che si fa compiendo scelte dinanzi alla paura del diverso, scelte anche linguistiche, perché con un po’ di sforzo “comunicare inclusivo” si può!
Ivana Rizzo